Ma il cristo, se invero è mai nato ed esistito in qualche luogo, è ignoto, e non conosce neppure sé stesso [...] E voi, accettando una favola senza senso, vi inventate un cristo a vostro uso.
.. Trifone.
I vangeli, ossia gli scritti che dovrebbero costituire le uniche fonti "biografiche" di un fatto straordinario verificatosi due millenni fa, sono un vero rompicapo; ripetiamo, lo sono non tanto per meriti sovrannaturali, bensì per problemi stilistici, storici, ideologici. A parte il fatto che sono quattro, tutti copiati gli uni dagli altri (tranne il quarto), alle origini parevano del tutto ignoti quantomeno fino al IV-V secolo, ben dopo quando Ireneo inizia a parlare di quattro vangeli per la prima volta; invero, prima di questi scritti "ufficiali" ne circolavano molti che, in seguito, la chiesa ha dichiarato "spurii". Il modo in cui tanto avvenne, ha del singolare: il "canone" fu decretato scartando quei libri che caddero dall'altare sul quale era stata riposta una pila di volumi, per decidere quali fossero ispirati o apocrifi.

Fuori da leggende colorite, le datazioni apposte ai codici più antichi non vanno oltre il 170 come data più tarda, e il 130 come data più recente. Ciò non significa che gli apostoli vissero per oltre un secolo e mezzo; più probabilmente, dicono gli esegeti, esistevano dei canovacci più antichi, guarda caso non pervenutici, scritti dagli "evangelisti in persona". Nulla vieta di pensarlo, se non fosse che ulteriori considerazioni farebbero apparire queste congetture come le ennesime acrobazie pro tempore di "studiosi" sin troppo certi dell'esistenza di Dio: siamo consapevoli che per i soliti malinformati apparirà assurdo, ma la stessa Enciclopedia Cattolica concorda col fatto che "i titoli dei vangeli odierni non possano essere affatto ricollegabili agli evangelisti ai quali sono stati fatti inerire".

Quanto alla genuinità di questi presunti canovacci, ufficiosamente vergati probabilmente intorno al 50 d. c., il discorso si fa più ponderale, perché, basandoci sulle testimonianze dei cosiddetti padri apostolici Papia e Policarpo (che a loro detta vissero a diretto contatto con gli apostoli), gli "evangelisti" scrissero raccogliendo delle testimonianze di terza mano, "per sentito dire, e non in ordine": davvero una metodologia cronistica piuttosto anomala, per una biografia così importante! Vieppiù anomala dato che, come premesso, nei primi tre troviamo una diretta copiatura e rielaborazione di dati sensibili: la qual cosa implica che qualcuno degli "evangelisti" dovette aver avuto a disposizione non già i resoconti dei testimoni, bensì il testo del più arcaico, ovverosia quello di Marco, se non il fantomatico Codice Q. Ma il problema non si porrebbe nemmeno, dato che sussistono le basi per la rielaborazione di personaggi precedenti.

Il buon Origene ci faceva già sapere che in principio i vangeli non fossero quattro, "ma tantissimi", e che da questi, non si sà in base a quale metodo né autorità, ne sono stati cerniti quelli, per modo di dire, attuali. Dopo averci parlato delle ragioni astronomiche dei quattro vangeli, Ireneo ci offriva una sua strana interpretazione del perché di questo numero: perché, in sostanza, essi sono stati usati dagli eretici nelle loro chiese, affinché a cristo sia data lode e conferma persino da parte loro (Contro le eresie 3.11.7ss)! Difatti, Ireneo aveva suddiviso i vangeli in questo modo: Matteo per gli ebioniti; Marco "per coloro che separano Gesù da cristo"; Luca per i marcioniti; Giovanni per i valentiniani (contro nicolaiti e cerintiani).

Marco è progettato per un'audience che include Roma e Alessandria: è il più antico ed anche il più inflazionato di romanesimo e contraddizioni, a partire dal fatto stesso che è ora contro, ora a favore dei romani. Al pari degli altri tre resoconti "canonici", non solo è stato stilato sulla scorta di racconti di seconda mano, ma è anche vistosamente conciso e rimaneggiato: nel caso specifico, Marco trascrisse le parole di Pietro, come dichiara Papia, "ma non in ordine".

Non c'è genealogia, né stella di Bethleem, strage degli innocenti, Gesù dodicenne al Templio, fuga in Egitto; Maria è menzionata per nome una sola volta, Giuseppe mai. È il vangelo in cui Gesù rinnega i membri della propria famiglia, i quali a loro volta pensano che l'Eletto sia impazzito (3.21); quello in cui non esiste oggetto di resurrezione ed in cui assistiamo all'episodio delle donne che lasciano la tomba spaventate "e non ne parlano a nessuno", quasi sulla falsariga del canovaccio immaginario dei dialoghi lucianeschi, ove gli dèi chiaccherano a quattr'occhi senza testimoni che possano riferire i loro discorsi, a parte la penna dello scrittore che li costruisce. Fortunatamente, Luca e Matteo aggiornano frequentemente le carenze del collega, riportando che il risorto disse loro di raccontare a tutti l'accaduto.

In effetti, il Gesù marciano, il Servo di Dio, non è ancora quell'essere perfetto dei vangeli successivi: è un personaggio a dir poco splenetico (14.34), disgustato (8.12), dispiaciuto (10.14), furioso (11.15-17), meravigliato (6.6), affaticato (4.38). È un personaggio quasi omologabile, dato che a Nazareth, sua presunta città natale, non poté operare miracoli poiché non venne creduto; molto spesso i taumaturghi cristiani si appelleranno all'influsso nefasto dell'incredulità dei materialisti, in caso di fallimento di profezie, miracoli et similia.

Dal capitolo primo al nono, questo scritto è un catalogo di miracoli ed esorcismi più una sporta di parabole di stile esopiano, con l'intermezzo teatrale in cui lo scrittore fa trasfigurare Gesù di nascosto, sulla cima del monte, ove dio lo conferma come suo figlio; interessante è 6.48, ove l'autore (di presunta attinenza ebrea) dovrebbe farci farebbe capire che gli ebrei dividessero le ore notturne in quattro veglie, cosa che facevano i romani (gli ebrei ne calcolavano solo tre) (1). Vieppiù ammirevole è 6.7-12, ove Gesù invia i discepoli a predicare ancor prima che lo riconoscano come messia, il che avviene due capitoli dopo. In mezzo a questi due episodi osserviamo, inoltre, un Gesù che tenta di confutare (o forse confondere) i sacerdoti, citando l'Isaia dalla Settanta anziché della verisone ebraica della Bibbia! Poi segue una curiosa concessione sul divorzio femminile, in un paese nel quale la separazione era permessa solo agli uomini; ed infine lo strano capitolo sull'oracolo della fine dei tempi: una predizione molto interessante, poiché, come leggiamo da Flavio, il sacerdote Gesù ben Anania, ennesimo predicatore anti-romano dell'epoca erodiana, aveva fatto questa stessa profezia guarda caso sul far delle spedizioni di Nerone in Palestina, come dice nella Guerra Giudaica.

Curioso è anche il fatto che, tornando a proposito di Gadara, Gerasa o qualunque cosa Marco abbia voluto intendere, Gerusalemme era occupata dalla X Fretensis, il cui emblema, impresso sulle porte cittadine alla disfatta di Bar Kochab, era un cinghiale, animale aborrito dagli ebrei; fondata nel 41 da Cesare e venuta al comando del Quirino "evangelico", fu questa la legione che distrusse Qumran, che attaccò i kamikaze zeloti di Eleazar a Masada e che sarà impiegata diciassette anni dopo da Corbulone insieme alla III Gallica ed alla VI Ferrata per conquistare l'Armenia, al cui comando il generale installò re Tigrane, pronipote di Erode il Grande, dopodiché venne agli ordini di Marco Ulpio Traiano, padre del più noto omonimo imperatore. Dall'altro canto, diversamente dalla Gerasa marciana, la Gadara matteana fu dapprima conquistata da Ianneo e ricostruita al tempo di Pompeo, divenendo poi lo scenario di un altro massacro di ribelli nel 69, per mano di Vespasiano, come scrive ancora Flavio nella Guerra Giudaica; in quell'occasione, i facinorosi furono ricacciati con ferocia nelle acque, lasciando circa duemila prigionieri su circa seimila (l'equivalente degli effettivi di una legione dell'epoca).

In Matteo gli "indemoniati" sono due, ma la sostanza non cambia: sono esorcizzati dal demone chiamato "legione", e costretti ad incarnarsi in un nugolo di suini, precisamente duemila anch'essi. Un primo fatto è che ci fu un tempo in cui la Fretensis ebbe circa 2000 unità, ma ciò avvenne solo dopo il IV secolo, quando fu stazionata stabilmente sul Mar Rosso: un secondo fatto è che Flavio pone gli eventi in relazione all'assalto di Tarichea contro i ribelli del ladrone chiamato "Gesù figlio di Shaphat"... Non vorremmo malignare, ma molto probabilmente il grande satirista gadarense Menippo avrebbe saputo dare una risposta a costruzioni del genere, se ci fossero rimaste delle sue opere.

A parte questi oracoli post eventum, nonostante la venuta di Tito la fine dei tempi non giunse affatto, talché al 13.7 Marco fa dire a Gesù che "la fine non è ancora"; 13.22 è una classica profezia-cuscinetto molto sicuramente rivolta a Bar Kochab, che venne unto messia con la benedizione dell'alto sacerdote Akiba, ingaggiando una disperata lotta contro gli invasori fino al 135. La profezia dell'inverno (14-18) è un'altra di queste; probabilmente allude al fatto che i romani si ritirarono proprio nell'inverno del 135.<%pagebreak()%>Mentre Traiano si trovava ingaggiato in strenua tenzone contro le forze congiunte di persiani e armeni, ad Alessandria (ove nel 115 v'era stata un'altra rivolta ebraica appoggiata dai párti) i teorici gnostici Valentino e Basilide si scambiavano reciproci complimenti sulle loro idee, al contempo in cui Adriano si trova in Siria nel periodo d'auge di Ignazio d'Antiochia e Saturnino: ecco che appare un nuovo vangelo scritto da un ebreo che parlava greco. L'autore, seguace di Paolo, aveva defezionato dai fondamentalisti gerosolimitani, trovando refugium peccatorum guarda caso ad Antiochia, ove gli ebrei di Cirene avranno costruito la prima chiesa Gentile (Atti 6.9).

È un vangelo prevalentemente politico, pro-ebraico, che riprende e corregge le sviste di Marco e sarà poi ascritto a Matteo: almeno sulla carta, la sua progettazione è esclusivamente per il regno di Israele, descrivendo Gesù come re, e poco v'è da aggiungere in suo merito più di quanto in precedenza rassegnato, salvo qualche dettaglio che potrebbe datarne meglio la redazione e le sorgenti. Ad esempio, il brano in cui il compilatore parla di un tal Zaccaria figlio di Barach (23.35) non risulta in alcun passo dell'Antico Testamento, mentre lo troviamo fra le vittime di un raid di zeloti descritto da Flavio (19.4), avvenuto dopo la cattura di Gerusalemme da parte di Tito; anche questa una "profezia postdatata", a quanto pare.

Sempre a cavallo di questo periodo nasce il vangelo di Giovanni, che è quello per i siriani e le colonie sudoccidentali dell'Anatolia, e che presenta Gesù come Figlio; ma soprattutto è il vangelo in cui, attestandosi l'affrancamento dell'uomo dalla legge mosaica con la morte del semidio, l'anti-giudaismo diventa più teoretico e sottile. Ricchissimo in finezze e problemi, questo è lo scritto più curioso, considerando già il fatto stesso che sarebbe stato vergato all'incirca nel d90: non è un dettaglio evidentemente di poco conto, qualora si pensasse che, sulla scorta degli stessi vangeli, Giovanni è sempre stato ritenuto quantomeno abbastanza longevo, se non immortale. Eusebio ci dirà che morì esattamente il 18 settembre del 96, mentre Ireneo precisava che il discepolo avesse scritto l'Apocalisse negli ultimi tempi di Domiziano; il che ci porta a sospettare che l'apostolo fosse ancora vivo e vegeto perlomeno fino all'anno prima.

Secondo la tradizione ecclesiale, l'autore è quel figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo che predicò ad Efeso dopo la crocefissione: nonostante ciò, l'apostolo prediletto, il medesimo che stava ai piedi della croce, ci dice che la missione di cristo durò tre anni anziché uno, che Gesù non fu giustiziato di venerdì e che fu lui stesso, non Simone da Cirene, a portare la croce; non cita alcuna eclissi né il pater noster, la Galilea e Giacomo latitano nelle sue pagine; disconosce quasi completamente le basi dell'ebraismo e l'istituzione dell'eucaristia; il suo scritto è pressoché del tutto asincrono rispetto ai sinottici, include sia tardo gnosticismo che polemica gnostica, si profonde in sottili stilettate anti-semitiche ed essenzialmente è composto in un greco sin troppo perfetto, per poter essere, come dice Paolo (Atti 4.13), l'opera di un pescatore illetterato capace di ricordare minuziosamente dialoghi tortuosi dopo oltre settant'anni o forse più, pur senza volere sottovalutare la potenza della divina ispirazione.

A parte questi dettagli già di per sé più che inquietanti, i dubbi sorgono dal fatto che nessuno, parlando di Giovanni apostolo, lo definisce evangelista quantomeno fino al 170, anno in cui lo fa Teofilo d'Antiochia in un suo scritto apparso in quel periodo: non lo fecero il connazionale Ignazio né Policarpo, vescovo di Smirne agli inizi del II secolo, né Policrate, vescovo di Efeso proprio dopo la scomparsa di Giovanni, che lo conclama prediletto di Gesù, dottore, vescovo, martire, aggiungendo che ebbe l'onore di riposare sul petto del Signore, ma dimenticando un fatto tanto rilevante come la paternità del quarto vangelo; non poteva, dato che era ignoto alla patristica fino al 125-150, guarda caso la data massima cui si potrebbe far risalire il Rylands 457 (il famoso P-52), che ne contiene la versione più antica. Se ne parla solo con Dionigi d'Alessandria nel 247, Agostino nel 354 e Crisostomo nel 398; ancora duecento anni prima, lo stesso "testimone" Papia menziona le epistole "di Giovanni" ma non il suo vangelo, come precisava addirittura Eusebio nell'Historia. Prescindendo dalla famosa aggiunta postuma di Gv. 21, lo scritto mostra pure delle tracce di ricalco su un antico canovaccio pseudo-gnostico noto come Vangelo dei segni, d'incerta datazione ma ad ogni modo perlomeno di mezzo secolo anteriore.

Ireneo, nativo dell'oriente, sapendo che lo scritto era originario di Efeso, l'accreditò a Giovanni per confutare l'eresia docetica dello gnostico Cerinto, ma forse equivocò l'apostolo con il vescovo Giovanni di Efeso, e così fecero Geronimo e Damaso; pure i montanisti (gli eretici cui aderirà un già senescente Tertulliano) lo attribuirono a Cerinto. Non sarebbe corretto dar credito al gossip incrociato, pur se, a quanto pare, i cristiani fecero di tutto per istigare il prossimo a prodursi in requisitorie scortesi: in effetti, dato che i docetisti cerintiani erano millenaristi, è assai strano che Giovanni avesse scritto pure l'Apocalisse, e con un stile così diverso dalla sua opera omnia che molti la attribuirono proprio a Cerinto fin qualche anno prima del Concilio di Cartagine, quando fu finalmente inclusa fra i libri ispirati del canone.<%pagebreak()%>Venendo al vangelo di Luca, poco c'è da dire che non risalti già dal fatto che egli sia stato il biografo di Paolo, qualora si volesse accordare che, al pari di Giovanni, fosse vissuto per oltre duecento anni, sopravvivendo pure al Tarsiota; il problema è che nemmeno la chiesa sà dove morì, se a Tebe, in Beozia, a Patrasso o in Bitinia.

Con la sua usuale pretenziosità, l'Enciclopedia Cattolica asserisce che l'originalità di Luca sta nel fatto che "l'autore degli Atti era un compagno di Paolo, chiamato Luca; e l'autore degli Atti è anche quello dei vangeli": è ovvio che sia un'evidenza piuttosto circolare. Eppure, questo "evidente personaggio storico" asserisce di sua penna (ma fu sua?) di non essere stato testimone oculare (1.2)! Ecco altre "evidenze" secondo la "prestigiosa" enciclopedia di dio: "Clemente Alessandrino mantiene che il vangelo di Luca fu scritto prima di quello di Marco"... il che è inesatto, dato che Marco è il più antico fra i quattro, come tutti concordano, compresa la stessa smemorata enciclopedia nell'articolo dedicato a quest'ultimo "evangelista". Ed ancora: "Da evidenze interne (!) possiamo concludere che questo vangelo fu scritto prima del 70", poiché chi scrive non parla della distruzione del templio! Più che una prova, piuttosto diremmo che, in questo modo, chi ha "previsto" la distruzione del templio negli altri scritti ne sapeva sicuramente più di Luca!

A parte tutto ciò, il suo stile, forse il più perfezionista dei quattro, è molto simile a quello di Giuseppe Flavio (il che porrebbe comunque la data di compilazione di questo vangelo intorno alla fine del I secolo), col quale però dissente su dettagli come la data del censo di Quirino. Lo scritto, che mostra Gesù come uomo, potrebbe contenere già in sé la prova della sua datazione: è dedicato ad un compaesano di Luca, chiamato Teofilo, che se così è sarebbe quel tal famoso vescovo di Antiochia, sebbene i commentatori evangelici lo identifichino in un personaggio ignoto, "forse appartenente all'ordine equestre". Teofilo fu vescovo nel 168: si può concedere che questa possa quantomeno essere la datazione della redazione finale dell'opera, dato che il più antico manoscritto di questo vangelo risale come minimo al 170. La cosa potrebbe essere lecita: Luca sembra dare spiegazioni sul cristianesimo al dedicatario, ed è noto che Teofilo, il quale mostrava d'ignorare completamente chi fosse Gesù, si convertì al cristianesimo leggendo la Bibbia anziché i vangeli, che non citò mai.

L'anacronismo non stupisca, poiché lo stesso Paolo menziona a Timoteo l'Antitesi di Marcione, che visse un secolo dopo il tredicesimo apostolo e che peraltro fu proprio colui il quale portò le lettere di Paolo a Roma! Questi viaggi nel tempo sono molto frequenti: ad esempio, Luca ci parla di Berenice senza spiegare che fosse la sorella di Agrippa, la qual cosa (a parte il produrre parecchi interrogativi sul fatto che quest'ultimo fosse simpatico a Paolo, dato che intratteneva rapporti incestuosi con lei) ci spinge a pensare che Luca scrivesse di malavoglia, poiché Berenice era già ben nota al pubblico romano dalle satire dello stoico Giovenale per una tresca con Tito. Non era ignota a Flavio o men che meno a Filone, poiché, verosimilmente nel 38-39, al tempo di Carabbas, la giovane aveva sposato Marco, figlio di Tiberio Alessandro. Stando ai rapporti cronologici, i fatti di cui parla Luca si svolgevano invece a partire dal fatidico anno 69, ovverosia quando Paolo stesso doveva essere già deceduto da almeno tre anni.

(1) Noto pure, come mi segnalano alcuni lettori sbalorditi, che in certe versioni recenti "ottimalizzate" questo passo è stato "ammodernato" cambiando "la quarta parte della notte" con la più "discreta" frase "l'ultima parte della notte".
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