Voi ci chiedete chi siano i veri dèi: per rispondervi in poche parole, noi non lo sappiamo. Come possiamo conoscere ciò che non abbiamo mai visto?
.. Arnobio.
"Dimostramelo!": questo solitamente urlano i credenti più pacifici, quando si afferma che Dio non esiste. È una risposta che si apprende sin da piccoli, tanto quanto le prove di ciò che egli propugna: egli ci risponderà additandoci "la meraviglia del creato", oppure che non può dimostrare l'esistenza di un essere perfettissimo e composto da "qualcosa di diverso dalla vile materia comune", così come noi non possiamo dimostrare il contrario. Epperò, egli continuerà comunque a credere che esiste un "Essere Superiore".

Mi sono sempre chiesto in che modo l'uomo possa avere certezza di non poter conoscere cos'è veramente Dio, mentre dall'altro lato è certo che tale essere esista indubbiamente.
I "difensori dell'Onnipotente" amano dire che il discorso sull'esistenza di Dio sarebbe stato già risolto "da secoli", al punto che ormai potrebbe dubitarne soltanto pazzi e indemoniati; in realtà, è proprio grazie alla costante azione di chi propugna certe cose, che le masse continuano ad essere convinte dell'esistenza di Dio, senza porsi alcun dubbio. Eppure, non dovrebbero fidarsi così ciecamente, considerato che qualora chiedessimo ad un teologo come si faccia a dire che esista un essere perfettissimo, senza conoscerlo coi sensi, costui ci risponderà che dobbiamo sentirlo "col cuore", chiudendo le porte alla presuntuosa incredulità degli "imperfetti sensi umani".
Se, nonostante tutto ciò, non riuscissimo ugualmente a "vedere (anzi, sentire) Dio", allora la colpa sarà soltanto nostra, inguaribili materialisti: Dio, che crea universi dal nulla, resuscita i morti, spacca montagne e minaccia apocalissi, essendo anche infinitamente liberale, ci ha concesso il "libero arbitrio" per farlo entrare di nostra volontà "nei nostri cuori", pena la dannazione eterna, se non seguiremo le sue regole. Più di così, non poteva fare.

Va da sé che questo genere di pretese siano la prova più lampante del fatto che un dio incapace d'abbassarsi a soddisfare personalmente la nostra curiosità filiale, sia la nostra creatura più imperfetta. Eppure, agli occhi del credente appare meno risibile della provocazione lucida: un Mussolini che si fa beffe dei credenti, sfidando "dio" a folgorarlo sull'istante per dimostrare la sua esistenza, è ritenuto più risibile di un allucinato religioso, perché la sua boutade è carica d'evidenza, e per tale motivo la definiamo "banale" o "pacchiana". Spesso sorridiamo di ciò che è immediatamente lampante, non di ciò che è ridicolo in sé per sé: ciò perchè, dentro di noi, sappiamo già qual è la risposta, e, ridendone, tentiamo d'esorcizzarla. Si ride dell'"ovvietà": in realtà, l'uomo sa già quale sia la verità, ma ha paura d'ammetterlo, onde evitare di vagare senza alcuna "certezza".

La stessa illogicità delle "prove" sull'esistenza di Dio ci fornisce il senso del fatto che le abbiamo innalzate noi stessi sopra le nostre caratteristiche di specie, le nostre paure, le nostre necessità.
Quando i credenti affermano che si possa credere o non credere in un dio pur senza avere la certezza assoluta che detto essere esista o meno, simili asserzioni si poggiano soprattutto sulla necessità di non smettere di pensare ed agire: si crede che, eliminando la tensione speculativa, si possa rimanere "inerti".
Non amiamo la Negazione ed il Limite: se ci dessimo un punto fermo, se credessimo d'essere arrivati a spiegare definitivamente parecchie cose sulle quali poggia l'incertezza artificiale della nostra società, potremmo credere di non avere alcuno scopo di vita o di ridurci alla staticità. La Chiesa è conscia di ciò, e gioca le sue carte su tale forma di "continuum"; Wojtyla stesso ha asserito che il progresso non consiste nel raggiungere una meta, bensì nel continuare a cercarla.
Cercare all'infinito è sinonimo di umiltà, dato che non possiamo scoprire la verità su Dio, pur se ci hanno detto che esiste "indubbiamente". Difatti, la ricerca non è nemmeno iniziata, proprio perché non possiamo comprendere Dio; ci si può soltanto fidare della parola di coloro i quali dicono d'essere infusi di Spirito Divino.
Ecco che ci aggiriamo attorno al punto basilare da cui si dovrebbe partire, cioè "cosa è Dio" ed "in base a cosa l'uomo crede che esista questo essere", costruendoci attorno una ragnatela di elucubrazioni centrifughe, facendo finta di non poter sceverare quel punto.

Quando i ragionamenti periferici si fanno troppo complessi, potrebbe capitare di perdere d'occhio l'epicentro, e con esso la logicità intrinseca di un ragionamento. Molto spesso lo facciamo anche perché vogliamo fare i "liberali" rispetto agli intransigenti, per apparire "umili" ostentando dei "dubbi": d'altronde, non si dice forse che chi non ha dubbi è un idiota?
Seguitando su questa scia, dimenticheremo che una creazione dal Nulla è assurda, che un essere infinitamente potente ed "obbligatoriamente esistente" deve anche essere infinitamente impotente ed obbligatoriamente inesistente, che l'uomo e il "creato" non siano granché di perfetto, che il "libero arbitrio" collide con un dio impositore, che le mitologie delle "scritture" sono offensive persino per un dio "infinitamente liberale", che "l'indefinibile" è già definito dal fatto d'essere "indefinibile": e via dicendo.
Dunque, con questi atteggiamenti periferici difenderemo semplicemente la nostra necessità di dubitare, quale estensione dell'essere "dinamici": e il gioco continua.<%pagebreak()%>Su questo pianeta vivono tanti popoli quante divinità, ciascuna delle quali è definita vera e indubitabile, mentre le altre sono sempre tutte false, pure essendo l'una identica all'altra, a differenza di dettagli locali. Così accade che, malgrado provengano dalle medesime radici cultuali, il dio dei musulmani sarebbe un falso dio per gli ebrei, e viceversa; la Trimurti induista non abbia alcunché in comune con la Trinità cattolica; Quetzalcoatl non sarebbe pressoché identico a Gesù. E così via.
Allo stesso modo, cambiano i nomi, ma la sostanza rimane immutata: in passato si chiedeva l'aiuto di Zeus, oggi quello di "Dio", sebbene la radice glottologica sia la medesima. Non si fa caso alla coincidenza, poiché entrambi i termini (quello greco e quello italiano moderno) provengono da una glossa sanscrita; in fondo, non tutti conoscono l'antica lingua dei Veda.
Possiamo dire, inoltre, che certe usanze si siano trasmesse inalterate pur a differenza di soggetto: all'epoca di Augusto si imprecava per Castore e Polluce, mentre oggi è assai più facile esecrare Giuda Iscariota, dato che sin da tenera età siamo stati abituati a sentire la storia di Gesù.

Coloro i quali credono in qualcosa di superiore, non hanno dubbi circa la sua esistenza, malgrado non riescano ad averne testimonianza diretta. In verità, da un po' di tempo a questa parte "Dio" non parla più direttamente a qualsiasi uomo, così come lo si vede fare negli scritti "sacri": vero è che ogni tanto spunti fuori qualche individuo "ispirato", che asserisce d'avere visioni e comunicazioni speciali, ma la gente — forse a cagione della frenetica attività del Maligno — oggi è molto più scettica di quanto non accadeva in passato. Così continuamo a dire che Dio esiste, apportandone a prima testimonianza proprio determinati prodotti letterari.

In realtà, qualsiasi "prova letteraria" andrebbe vista subito come un'assurdità, qualora capissimo che Dio non esiste già partendo da un'analisi cosmologico-logica: si può comunque obiettare che non tutti siano portati per la logica, men che mai per discussioni di fisica applicata (anche perché esistono già parecchi scienziati incapaci di distinguere la scienza dalla fede in cui sono stati allevati).
Peraltro, non credo che un libro "sacro" sia la prima testificazione dell'esistenza di qualcosa di superiore: se così fosse, dovremmo intendere valide pure le tavolette d'argilla sumere, nelle quali si parlava di "dèi dell'universo" circa due millenni prima che gli ebrei emettessero i loro primi vagiti.
Analizzando la "prova letteraria" dell'esistenza di Dio secondo i termini contenuti nell Bibbia, potremmo cogliere piuttosto l'evidenza del fatto che parecchie scene bibliche siano state già anticipate dalla letteratura mesopotamica, che molti episodi siano assolutamente incongruenti e addirittura tali da ridicolizzare il concetto di Deità Assoluta, che sussistano antinomie e talora veri e proprii balzi nel tempo. Per motivi che non occorre evidenziare, non riusciamo però a cogliere tutte queste cose: anche perchè gli "scienziati di Dio" si danno da fare per "spiegare" qualsiasi aporia, dato che dalla credibilità della Bibbia dipende quella di parecchie altre cose.
Del resto, a spulciare la gran mole di documenti prodotti dai teologi vien il capogiro, ammesso e non concesso d'avere il tempo quantomeno per iniziare a sfogliarli: nondimeno, i teologi contano proprio su questo onde poter dire che se non ci si sarà sottoposti a tale tortura, non si può essere definiti "esperti di dio".<%pagebreak()%>L'unica prova su Dio ci proviene dunque dalle affermazioni di opere letterarie: è in esse che l'uomo, per la prima volta nella storia, ha iniziato a dirci che occorresse abbassarsi a un essere onnipotente che avrebbe creato l'universo, e di cui soltanto i "degni" potevano ricevere la testimonianza. Solo successivamente, quando l'uomo ha iniziato a dubitare, i teologi hanno iniziato a distaccarsi dal citare soltanto i documenti, dicendo che ciò che ci circonda sia una prova altrettanto "palese".

Per capire in che modo si sia evoluta questa pretesa, occorre fare un passo indietro alle origini, quando le divinità erano dei totem che identificavano l'etnia di cui erano espressione: così fu anche per il dio ebraico. Con l'evolversi del gruppo sociale, questo feticcio fece un "salto di qualità", divenendo entità umanizzata, poi astrale, eterea ed infine "indefinibile": è normale che le cose dovessero andare in tal modo, proprio perché non esisteva una testimonianza diretta dell'esistenza di tale entità.
Il primo concetto storico di "divinità" è stato fatto inerire a quello dell'Oltre; nel caso specifico, il cielo e gli eventi che lo riguardavano. Prima ancora, il "divino" era animismo, "sensazione" di quiddità dell'uomo, associata alle domande sull'esistenza sua e del Tutto che non poteva padroneggiare. Cristallizzando questo "Oltre" in una figura a misura d'uomo, nacquero gli dèi antropomorfi; reliquie a tutt'oggi presenti nell'inconscio umano, pur se annebbiate dalla necessità "tecnologica" del Vago.
Così l'uomo creò il divino; il fatto che il bandolo di questo processo si perde nell'alba della specie (cioè, che non riesce a rintracciarne l'origine a la formazione), gli fa credere che Dio non sia sua creatura.

Quindi, dal rapporto fra il Sé e l'environmental, l'uomo trae la necessità di superamento del Limite intrinseco, che antropomorfizza e definisce "indefinibile" (si scusi il gioco di parole), senza capire che ciò che è definito indefinibile è comunque definito dal fatto che sarebbe "indefinibile". Da questa tradizione amniotica si passò a mettere le nozioni su carta, anche per dar loro una parvenza di verosimiglianza.

Come altra "prova", i teologi apportano dunque noi stessi e ciò che ci circonda; un artificio che non dimostra altro fuorché la nostra potenziale impotenza dinnanzi a ciò che non riusciamo a padroneggiare né a comprendere con cognizione di causa ed effetto. Non è certo una grande trovata, apportare quel medesimo uomo che si definisce incapace di capire la "verità" di quelle stesse costruzioni divine che egli medesimo ha architettato! È sempre quell'essere umano che muore, copula, defeca; che può essere reso una larva da una folata di vento, mentre organismi meno complessi possono godere di un'esistenza lunghissima, rigenerarsi all'infinito e addirittura provocare danni irreparabili al presunto Signore del pianeta Terra.
Quanto al "Creato", ovvero l'argomento del "disegno intelligente" (già abbondantemente destituito da Hume), è chiaro che la Bibbia non abbia alcun primato formulativo sull'arcaica tesi della genesi dell'universo: che, a ben analizzare certe sue pagine, non ha nulla da spartire con le scoperte attuali.
A parte ciò, un universo quantificabile non potrebbe certo essere indizio dell'attività di un essere inquantificabile: un "vero dio" dovrebbe essere capace di qualsiasi azione, non già di uno ed un solo tipo di "creazione" specifica. Dire che l'universo "è fatto così, e così doveva essere", non è una gran prova: è soltanto l'ennesimo tentativo ad ignorantiam, malamente camuffato.
D'altronde, un essere perfetto ha e non ha alcuna ragione di creare alcunché: e dal momento che non è possibile effettuare un'azione che consiste nel fare e non fare al contempo, è più lecito che questa "creazione" esista per semplice necessità d'essere differenziata da ciò che non esiste, l'unica cosa che può contenerne un'altra caratterizzata da dimensioni materiali: vale a dire, il Niente.

In fondo, pur qualora la teoria dell'universo elastico (formulata proprio da un religioso, e popolarizzata come "teoria del Big Bang") fosse erronea, dovremmo poter postulare comunque che qualcosa non possa nascere da ciò che non possiede dimensioni materiali, ossia dal Nulla di cui sopra: in quel caso, sarebbe placito concludere che il cosmo sia sempre esistito e sempre esisterà, così come dicevano Leucippo, Democrito, Epicuro e Lucrezio qualche secolo prima di Lattanzio ed altri loro furbi detrattori.

Concludendo, non credo sia il caso di dar retta a chi dice che vi siano "prove inconfutabili" sull'esistenza di ciò che non riusciamo a cogliere coi nostri sensi (ma che esiste ugualmente...), tantomeno con la Ragione: è più facile che costoro abbiano semplicemente la necessità d'addolcire i loro dubbi tramite la fede.
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