Sono certo che tutti gli indizi disseminati qua e là con estrema nonchalance da parte di Paolo non abbiano mancato di riscuotere un vivo interesse nella comunità interna degli studiosi dei misteri religiosi: se da un lato questi ultimi avevano l'obbligo di negare la persistenza di tali componenti nel "nuovo" culto, dall'altro canto tra di loro ne discutevano accanitamente, sebbene noi stessi non riusciamo a cogliere immediatamente il soggetto delle loro discussioni in primo luogo per via dei cripticismi con i quali era stato ammantato, ed in secondo luogo perché tali cifrature riflettevano la pochezza delle cognizioni astronomiche del passato, al punto che non era infrequente passare a descrivere moti cosmici con le medesime metafore ed allegorie dei sacerdoti e dei mitografi pagani. Basta già dare un'occhiata all'Apocalisse per rendersene conto.

Per quanto impossibile possa apparire qualora riferita a una superstizione fideistica come il cristianesimo, quest'eredità poggiava su basi scientifiche, seppure nel senso di un'adulterazione di fenomeni cosmici riproposti in chiave misterica; in fondo, fu proprio il movente scientifico ad aver fatto credere ai suoi esegeti che il cristianesimo fosse basato su fattori comprovabili. La vera poesia e il punto di forza del cristianesimo consiste appunto nella riproposizione della Tradizione astrale in una chiave nuova, un processo che letteralmente sbalordì i suoi futuri esegeti, che erano affatto digiuni di nozioni in questo campo specifico (tutt'altro).

Come abbiamo introdotto nel capitolo precedente, duemila anni or sono si è verificato un evento che era sicuramente già noto ai sacerdoti-astronomi del passato, ma di certo non compreso né quantificato nei suoi meccanismi intrinseci: la precessione degli equinozi. Il cielo si "muove": o meglio, a causa di particolari meccanismi sui quali non staremo qui a tediarvi, il rapporto angolare di puntatura dell'orizzonte su un determinato arco di cielo sfasa regolarmente ogni due millenni circa. Onde illustrarne concisamente il meccanismo, è sufficiente immaginare due ingranaggi, uno mobile e l'altro fisso, suddivisi entrambi in dodici settori da trenta gradi ciascuno: all'incirca ogni 2160 anni, un settore del primo si sovrappone virtualmente a uno del secondo ruotando in senso contrario appunto per un arco di trenta gradi; il primo cerchio è lo zodiaco tropico, immutabile ed assolutamente inutile dal punto di vista scientifico (così come lo è l'astrologia cui è ancorato), mentre il secondo è lo zodiaco sidereo o astronomico.

In sostanza, laddove per convenzione siamo abituati a dire che il Sole sorge invariabilmente in Aquario a febbraio, in Pesci a marzo, in Ariete ad aprile e via di seguito, a causa dell'occorrenza di questo fattore le cose stanno realmente in un altro verso: così, duemila anni fa all'equinozio di primavera il Sole si levava in Ariete, mentre oggi in realtà sullo stesso punto sorge nei Pesci, fra circa un secolo e mezzo punterà sull'Aquario e così via, fino a ritornare di nuovo in Ariete una volta trascorsi 25960 anni, ossia dodici volte 2160 anni. In tal modo, la divisione angolare del ciclo annuale viene ad assumere un'analogia con un sovra-ciclo di portata più vasta.

Al tempo di Tiberio la precessione iniziava a marcare i Pesci (1), che non per nulla divennero il simbolo del cristianesimo insieme all'àncora, che indica appunto "l'ormeggio" stabile del Sole nella costellazione. In tal modo, così come il ciclo dell'anno solare cominciava e finiva, si pensava che alla fine di uno di questi cicli l'assetto della Macchina dei Cieli ritornasse al suo punto di reset: per mirabile miracolo numerico, il "mondo" finiva e ricominciava tanto quanto accadeva per il corso dell'anno. Si trattava dunque di un evento di tipo epocale, un passaggio di consegne di epoche che sarà poi sancito dalla cronologia cristiana come Anno Zero della nuova èra; il fatto che le unità di calcolo etometrico annuale siano comunque a base sessagesimale così come i loro sovra-multipli epocali, implicava che questi ultimi fossero espressione dei secondi, sicché così come ogni anno si compiva un ciclo in Ariete, allo stesso modo in un anno precessionale si chiudeva un ciclo cosmico nella stessa costellazione. Di qui la necessità di celebrare ogni anno la "morte" del dio durante la primavera.

Come ben sappiamo, gli antichi popoli dell'epoca pre-cristiana credevano che il periodo dell'anno sotto il quale si viveva e nasceva, influenzasse gli eventi a seconda delle configurazioni planetarie che occorrevano in esso, in relazione allo "influsso" particolare del "segno" zodiacale su cui sorgeva il Sole, sia per i popoli che per i personaggi di spicco; così, ad es., era pure per quel che riguardava le epoche. Si credeva, infatti, che l'epoca corrente fosse influenzata dalle caratteristiche stereotipe del "segno" sul quale era ancorata la precessione. Non possiamo dire che si sbagliassero: se prendiamo in esempiò l'éra attuale, per l'appunto, così come ci dice l'astrologia, essa rispecchierebbe abbastanza puntualmente le caratteristiche dei Pesci, un'epoca ambigua, di umanitarismo e sacrificio da una parte, ma pregna di vittimismo artefatto, conseguenza della debolezza intrinseca e pilotata da parte di certe religioni. Un'epoca incostante, materiata di illusione, di inganno, di crudeltà per gli altri, e di arrogazione di giustizia per sé. Allo stesso modo, chi "prevede" l'èra del "Figlio dell'Uomo", l'Aquario, sovraccarica il futuro con le caratteristiche "zodiacali" di quel segno, sia in positivo che in negativo.

È chiaro che per i mistagoghi del passato questo era un vero e proprio mistero divino, un segreto ben al sicuro dai profani, per via del fatto che la sua conoscenza implicava nozioni di norma precluse ai non addetti ai lavori; accadeva proprio come se un dio invisibile e beffardo facesse sfasare le corrispondenze dei settori del cielo a determinate scadenze, attuando un prodigio sovrumano che tale rimase sin quando non fu scientificamente verificato da parte di Ipparco di Nicea proprio lo stesso anno in cui Ircano distrusse il templio del Gerizim, pur se era già noto anche ai babilonesi e sicuramente agli egizi, come potremmo ricavare da Erodoto e Pomponio Mela.

Studiando i versi di Arato e il moto di Spica, la stella a della Vergine, Ipparco notò che il punto equinoziale si era spostato dal Toro all'Ariete rispetto alle configurazioni precedenti, e che al suo tempo il moto celeste aveva a sua volta già superato il punto spostandosi in Pesci (che gli ebrei collegavano ad Israele, come ci diceva già Isaac Abravanel) e facendo sfasare le demarcazioni dei settori stellari; le stelle erano "passate con fragore", la qual cosa faceva presagire che l'evento fosse ciclico e potesse ripetersi in futuro così come s'era già verificato in passato. Così testificano i vangeli:

"In quei giorni, dopo quella tribolazione, il Sole s'oscurerà, e la Luna non darà più il suo splendore, e gli astri si metteranno a cadere dal cielo, e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte" (Mc. 13-24-25).

"Vi saranno segni nel Sole, nella Luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla Terra. Infatti, le potenze dei cieli saranno sconvolte" (Lc. 21.25.26).
<%pagebreak()%>Naturalmente, fu proprio tramite i greci che la conoscenza di questo evento come fatto scientifico filtrò alla cultura successiva. Il ciclo precessionale è anche detto Anno Platonico perché sembra fosse già noto all'Aristonide, fonte preferenziale dei "filosofi" cristiani, quando ci parla del suo Grande Ciclo nel Timeo, che egli stimò ad occhio e croce alla durata di 36000 anni:

"Un periodo d'estrema importanza si completa quando tutti i pianeti ritornano nella costellazione in cui erano, ed il processo riparte daccapo: il numero di tempo soddisfa all'anno completo allorquando tutte le otto orbite, con le loro velocità relative, terminano insieme in un punto".

I progettisti del cristianesimo non potevano non essere a conoscenza di simili nozioni, già note a tutti gli "iniziati" al sapere scientifico da oltre un secolo, specialmente dal momento che queste parole erano già state ripetute da Platone ben due secoli prima di Ipparco; è probabile che il primo dovette averle ripreso dagli egizi tramite Solone, a cui proposito egli parla nei dialoghi coi dotti sacerdoti di Sais, che rimproveravano ai greci d'aver confuso dei miti a sfondo astrale per favole senza senso.

Comunque sia, il calcolo epocale non è esclusivo delle civiltà astronomiche del Medioriente: gli indiani, gli egizi ed i popoli precolombiani possedevano sistemi abbastanza analoghi, pur se basati su unità differenti. I loro calcoli riandavano principalmente alla sincronia fra calendario solare e lunare attraverso il computo del ciclo delle eclissi; per tal motivo, nella cronologia mitologica di questi popoli osserviamo numeri di grandezza esorbitante, così come accade nel computo delle epoche yuga induiste, nel calcolo delle sequenze regali persiane, nelle liste di Maneto o nelle successioni dei re divini sumeri del Prisma di Weld-Blundell, alle quali si rifecero Beroso e nondimeno Sincello ed Eusebio. Da Babilonia il calcolo passò poi agli ebrei con le sequenze adamitiche, come oramai accertato dalla storiografia moderna, e dall'ebraismo ortodosso passò a quello ermeneutico ed esegetico.

Dal canto loro, i romani adottavano il sistema basato sulle ère del computo etrusco di 110 anni, con i Ludi Sæculares, il cui ottavo ciclo era iniziato dopo la morte di Cesare, al tempo dell'incoronazione di Augusto; nel De Die Natali, Censorino ci dice che nei libri rituali etruschi era contenuta una dottrina specifica per il computo del tempo degli esseri viventi e delle nazioni, che il numero di anni compreso in un sæculum non era fisso, ma stabilito da prodigi astronomici, e che il massimo lasso di tempo concesso all'Etruria sarebbe stato di mille anni, dettaglio che non abbisogna di commenti. Peraltro, con tre superstiziosi dittatori del calibro di Cesare, Augusto e Tito, parve che le "profezie" dei cicli astrali fossero giunte a compimento, tant'è che a Roma l'attesa di un liberatore rivoluzionario fu di parecchio antecedente alle rielaborazioni cristiane; a parte Virgilio, fra i tanti fu annunziata da Orazio, Tacito, Svetonio.

Ma fu dai persiani, con le loro eredità induiste, che tale sistema pervenne a un compimento strutturato. Essi credevano che la lotta tra il Bene e il Male, rispettivamente personificati dai gemelli Ahura Mazda e Ahriman, si protraesse a fasi alterne per 12000 anni (la metà approssimata di un anno precessionale, ridotta di mille anni ogni segno zodiacale), al termine dei quali il primo avrebbe trionfato sul secondo grazie all'intervento del messia Saosyant e del suo "paracleto", Aushedarma. Nati entrambi da due vergini (quindicenni, come la Maria evangelica, e capaci di camminare sull'acqua...), questi due personaggi costituiscono l'emanazione secondaria o pragmatica dei cosiddetti amesha, gli immortali beneficienti; questi ultimi erano in numero di sette, dei quali il terzo, Vohu Mana, fu identificato col logos alessandrino ed era detto "figlio del Creatore", mentre il primo, Spenta Manyu, era diretta incarnazione e talora identificazione di Ahura Mazda.

Certo è che i persiani, acri avversari della grecità, giocarono un ruolo primario non solo nell'affrancamento del popolo di Israele, ma anche della ricostruzione dell'ideologia yahvitica: in fondo, l'ultimo "messia" del popolo eletto fu proprio un sovrano persiano, Ciro il Grande. Omofonia a parte, le analogie tra l'amesha persiano e il mashiach ebraico sono ponderali, malgrado l'intrusione di modelli persiani nel cristianesimo sia estremamente indiretta e quantomeno dissimulata di modo da renderla labile, al punto che la presenza dei magi per certuni è un mero episodio contenitivo: difatti, a dispetto di tale labilità, questo legame risalta soprattutto dalla letteratura extra-evangelica e dai commentarii dei padri.

Occorre dire che, come v'era da attendersi, gli esegeti tentarono in tutti i modi di picconare pure queste analogie: quasi dimenticando quelli dei vangeli, iniziarono a dire che i magi fossero degli stregoni, che non fosse possibile prestar loro credito poiché erano degli astrologi, e che praticassero dei costumi immorali, credendo in tal modo di riuscire a distogliere l'attenzione dei curiosi dal vero significato di questi personaggi intromissivi. Agli occhi delle classi meno acculturate, il metodo si rivelò abbastanza efficace: facendo leva come al solito sulla fede e la "morale", unendo alle loro prediche il monito e un tono sollecito, i defensores riuscirono per tempo a creare la solita cortina di filtro tra le scritture e il loro significato esterno. Furono costretti a far ciò, poiché quel che asserivano i cosiddetti apocrifi in proposito, era abbastanza imbarazzante; ma, come accade di solito in circostanze del genere, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, dato che, nel generale imbarazzo, sovente arrivavano a contraddirsi vicendevolmente.<%pagebreak()%>Dal momento che la presenza dei magi implicava nozioni proibite quali la "magia", ovvero l'astronomia, gli apologisti tentarono di camuffare la scomoda evidenza cercando di depistare la cosa su argomenti meno preoccupanti; e ci sarebbero riusciti di certo, qualora documenti come il cosiddetto Vangelo arabo-siriano non avevessero dichiarato che la nascita del messia fosse stata profetizzata da Zarathustra, la qual cosa, se osserviamo i testi avestici, corrisponderebbe a realtà. Dovettero esserne a parte pure celebrati esegeti quali Giulio Africano, il quale, quasi per fare un dispetto ad Agostino e Crisostomo, nella Relazione degli Eventi in Persia scriveva che la nascita di cristo era stata prevista dai magi secondo calcoli astronomici, aggiungendo però che per i savii pagani la puerpera, chiamata Myria-Pege, fosse l'incarnazione di Giunone, e il cristo figlio del Sole: la sua nascita, soggiunge Africano

"fu prevista innanzitutto dai persiani: sappiamo, infatti, che nulla sfugge all'indagine di quei giuristi, che osservano le cose con massimo scrupolo [...] la stella è un segnale di portenti che accadranno sulla Terra [...] A diritto le donne danzano e dicono: «O signora Pege, portatrice della primavera, tu, o madre delle costellazioni celesti!»".

Il fatto che nessuno si sia mai sognato di sconfessare Africano — anche perché ci si appoggiava ad un altro suo brano per convalidare la storia della "grande oscurità" durante la crocefissione — implica che sia assai facile far passare in secondo piano un'affinità pagana dinnanzi alla convalida di "dati profetici" fatta da un altro cristiano nell'ennesima fabula prætexta essoteristica; in questo solo breve estratto è condensato tanto di quel paganesimo astrale da compensare secoli d'esegesi, sebbene Africano non avesse comunque tutti i torti. Difatti, così riporta il testo deutero-avestico Zand-i Vohuman Yasht:

"Sta scritto, alcuni fra gli indiani l'han previsto; un principe è nato, suo padre lo chiamerà Vâhrâm (2). Che un segno possa giungere sulla Terra, quando nascerà il principe; una stella cadrà dal cielo, e nel mese d'Avân, il giorno di Vâd, all'equinozio d'autunno, suo padre morrà. E quando avrà raggiunto i trent'anni, verrà con innumerevoli armate e stendardi; quando Giove butterà giù Venere, la sovranità verrà a lui".

Non vogliamo qui indagare cosa avessero voluto intendere i persiani con queste allusioni agli indiani ed a simili metafore astronomiche, anche perché il discorso ci costringerebbe a retrocedere nel tempo e nello spazio di qualche millennio fino alle origini dei Veda: certo è che la presenza di questi "stregoni" nei vangeli non sia casuale tanto quanto non lo sono taluni "segni celesti".

La cosiddetta "stella dei magi" continua ad affascinare gli studiosi da secoli: certo è che pure tale dettaglio fu oggetto d'attento interesse da parte degli esegeti, che non potevano accettare le voci circolanti in merito a implicazioni astrali. Lungi da noi il definire perentoriamente cosa sia stato veramente (anche perché non è questo lo scopo di questa disamina), si tratta di uno di quei "segnali" celesti che, nell'immaginario ebraico, dichiaravano la nascita dei messia e il verificarsi di eventi mirabili; le kochav shavit (ebr. "stella-scettro"; lo "scettro di Giacobbe" di Balaam), come gli ebrei chiamavano le comete, se questa fu, avevano tale significato.

Gli ebrei osservavano il corso degli astri a livello di predizione; non amavano l'astrologia, e difatti non si occupavano di essa, bensì di astronomia, sebbene non pochi rabbini si fossero dedicati con rispetto pure a quest'ultima, ritenendola comunque subordinata a dio. Il fatto è che, complici le eredità caldeo-persiane, per gli ebrei pre-gaonici era ancora difficile distinguere fra l'una e l'altra, al punto che in certe circostanze si dedicavano a questa superstizione. I cristiani lo sapevano, e fecero carte false anche a tal proposito, cogliendo l'occasione per denigrare gli ebrei e la stessa Bibbia, come vediamo da un'attualisimo passo dell'Enciclopedia Cattolica a proposito dell'astrologia ebraica:

"Più la nazione giudea scendeva in basso nella scala della religione e della civiltà, più grande diventava il potere delle erronee dottrine astrologiche nelle masse, accompagnando la credenza nella demonologia. Le fatiche terrene del Salvatore purificarono questa nociva atmosfera. Il Nuovo Testamento si oppone all'astrologia [...] La passione per l'astrologia dimostrata dal giudaismo decadente, e preservata nella Bibbia, è un'ulteriore prova della propensione delle genti semite per le superstizioni fatalistiche, e del purificante, vittorioso potere dell'etica della cristianità".

Senza voler commentare rantoli rabbiosi del genere, non mi risulta l'astrologia sia stata definitivamente sradicata (anzi, parecchi papi, importanti padri della chiesa e religiosi medievali o rinascimentali, ne furono cultori); che il Vangelo abbia a che ridire apertamente proprio sull'astrologia; né che, contrariamente a quanto in altre circostanza si ama dire, la Bibbia ammette di consultare astrologi. Tutt'altro. Ma tant'è, per il dotto compilatore della voce enciclopedica in questione.

Chiusa la parentesi, probabilmente chi scrisse i vangeli — o li "sintonizzò" con più finezza sui gusti successivi — non aveva alcun motivo d'essere più preciso di quanto non lo fu Matteo, l'unico a citare l'evento, ed il cui vangelo è chiaramente rivolto a un messia regale; tutt'al più, tanto sarebbe semplicemente l'ennesima prova della scarsa rilevabilità di questi scritti come fonte storica. Credo che il motivo di tale vaghezza sia stato più probabilmente il fatto che l'estensore abbia accorpato, per ragioni letterarie, più eventi celesti di carattere diverso, verificatisi in quel periodo; tali eventi, fra i quali determinate congiunzioni tra pianeti in ben precise costellazioni, si verificano per l'appunto dopo lunghi archi di tempo.

Quel che è certo è che durante il periodo che spazia dal p4 al d5, non solo nessuna delle comete ricorrenti ha intersecato l'orbita terrestre, ma nessuna congiunzione notevole si è verificata in Capricorno, men che mai il 25 dicembre: le uniche congiunzioni planetarie di rilievo epocale, tra Giove e Saturno, furono registrate nei Pesci, ossia il "segno" zodiacale tradizionalmente legato a Israele. La seconda congiunzione notabile si verificò tre anni prima del cosiddetto Anno Zero per due volte nel Leone, simbolo di Giuda, formando un unico astro: i corpi celesti planetarii coinvolti erano, come preannunziato dalle "profezie" zoroastriane, appunto Venere e Giove.

I cristiani erano comunque ben al corrente dei fatti, malgrado per ovvi motivi si affrettassero a dissimularli nel vago e nell'alone di tregenda; se Pietro ci dice che un giorno di dio equivale a un millennio, Agostino ci mette apertamente a parte della sua visione del sistema, per cui la quinta età era terminata e ci si trovava nella sesta, mentre la dissoluzione era annunziata per la settima età, in accordo con la tesi del mondo settemillenario predicata proprio da Papia ed esposta da Giustino nel Dialogo. Quasi in perfetta analogia con il codice escatologico zoroastriano poi ripreso da Bardesane, Barnaba aggiungeva che "in seimila anni il signore porrà termine a tutte le cose". Il Talmud Babli concordava: "Il mondo esiste per seimila anni: i primi duemila sono vuoti; gli altri due sono dell'èra della Torah; gli ultimi due appartengono all'èra del messia" (Abodah Zara 9). Conclude Giovanni Damasceno:

"Dobbiamo capire che la parola «età» ha vari significati. La vita di un uomo, il periodo di mille anni, la vita presente, e persino quella futura, dopo la resurrezione, sono chiamati «età». E ancora, il termine denota anche non solo una parte del tempo misurato tramite il calcolo del percorso degli astri [...] ma anche quella sorta di moto temporale ed intervallo co-estensivo con l'eternità [..] Si parla di sette età di questo mondo, dalla creazione alla fine del mondo ed alla resurrezione [...] L'ottava età è quella ventura [...] In che modo, quindi, verrà computato il periodo di mille anni per cui, secondo Origene, è richiesto il trascorrere onde tornare punto e daccapo?".


(1) Anche in questo caso i simbolismi sono calzanti, e rispecchiano delle matrici non completamente mediterranee. Gli induisti, che quanto ad astrologia non sono secondi a nessuno, designano il "segno" dei Pesci col simbolo dell'uomo (Manu, che equivale al Noé induista, nondimeno a Giona) che fuoriesce dalla bocca del Pesce, chiamato Mashia; questo "segno", agli effetti, costituisce il secondo nodo lunare, quello della "coda" del "drago" primordiale Rahu, diviso in due da Visnu: il nome di questo nodo, Ketu (nome che, fuori dell'intrinseco significato semantico sanscrito, è forse legato ad una radice cognata col latino Cetus, "Balena", così come Rahu può consonare con Dracus), è legato al concetto chiamato moksha, ossia "liberazione" (dai legami terreni), e costituisce la vita passata dell'uomo. Inutile dire che questi termini e simboli riscuotano parecchia omofonia e concettualità col mashiach "ebraico" e la sua èra.

(2) Vâhrâm significa "Lo Splendido", nome che identificava Sirio e la Luna.
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