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No: non lo uccisero, ma misero un altro al suo posto, sulla croce. .. Corano 4.157. |
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Prima di entrare nel merito del discorso, per motivi che saranno chiari in seguito concediamoci una temporanea digressione su un argomento strettamente integrato; ci riserveremo di riconnetterci alla tematica astrale nel capitolo successivo.
Nel mondo antico persistevano dei rituali abbastanza popolari, che avevano lo scopo di preservare la buonasorte del popolo con determinate formule espiatorie e apotropaiche; tramandatesi sin da quando esiste l'uomo, il senso di queste cerimonie si era assai meccanizzato, perché il volgo avesse potuto scorgere il loro nesso originario, sebbene all'atto pratico esse ruotavano sul concetto d'allontanamento della malasorte e degli agenti di rottura dell'ordine pubblico. I sacerdoti che ne curavano l'espletazione dovevano conoscere per forza di cose il nesso recondito di tali cerimonie, poiché queste ultime erano legate a doppio filo al welfare della comunità, che a sua volta dipendeva dai raccolti, e soprattutto perché erano dettate da fattori connessi al calendario di cui le classi sacerdotali erano curatrici per elezione. Le pratiche di "allontanamento del male" erano note ai greci, ai romani ed anche ai giudei, vale a dire le tre culture coinvolte nella formazione dell'ibrido evangelico: i primi due popoli le avevano ereditate da usanze ancestrali proprie a tutte le nazioni defluenti dal crogiolo indeuropeo, mentre gli ebrei le trassero sicuramente dai caldei e nondimeno dai persiani e forse dagli hittiti, questi ultimi entrambi indeuropei anch'essi. Specificatamente, siffatte "cerimonie" si svolgevano quasi tutte nell'arco di tempo che spazia dalla fine di febbraio a quella di aprile. Ne parleremo diffusamente e nei punti essenziali, essendo esse abbastanza note, riservando al lettore volenteroso di approfondirli separata sede, affinché gli uomini, parafrasando il buon Giuliano, se vorranno
"non abbiano bisogno di fare appello ad una spiegazione di altri, ma, ammaestrati dalla stessa favola, ne penetrino il senso misterioso e desiderino continuare più alacremente, guidati dalla Ragione, le loro ricerche".
A Roma, questo era il periodo più denso di rituali e sacrifici di tutto il corso dell'anno, in particolare quelli in onore di Giunone e di suo figlio Marte; l'anno vecchio era già passato, ed occorreva ingraziarsi gli dèi onde assicurarsene la benevolenza per tutto il corso successivo. Alcune di queste usanze erano quella del rex sacrorum e della cacciata del Vecchio Marte, dio arcaico ereditato dagli oschi; si trattava di sacrifici o persecuzioni simulate, inscenate da tutta la comunità ai danni di un povero mendicante che incarnava la miseria, da esorcizzare sovente nel territorio dei nemici. Quindi, lo stesso patrono della nazione latina diventava qualcosa da esorcizzare, col passare del tempo. In epoca arcaica, il malcapitato "inutile" veniva ucciso; col tempo, si prese a scaricare le colpe del popolo su feticci inanimati o su animali come tori e arieti. Molto spesso si ricorreva anche all'impiccagione di simulacri in cera o stoppa, specialmente su alberi di fico, come nel caso dei sacrifici a Dioniso, e per esorcizzare gli dèi dei morti.
Una pratica del genere era il fulcro centrale del festival di Attis e Cibele, importato dai romani dalla Frigia qualche secolo prima. Le cerimonie erano aperte alle idi di marzo, quando veniva sacrificato un ariete a Giove: indi i sacerdoti di Cibele si eviravano per fecondare la terra, pratica che fu poi sostituita dal taurobolio e dal criobolio, nelle quali l'iniziando era letteralmente lavato col sangue degli animali uccisi. I festeggiamenti proseguivano con la processione dell'immagine di Attis fra rami di palma, che veniva inchiodata su un albero di pino, dal cui legno secondo la tradizione fu ricavata la croce di Gesù. Il rituale centrale si teneva a partire da giorno 23, il cosiddetto dies sanguinis, raggiungendo il suo climax il venerdì in cui il dio moriva: dopodiché, insieme agli scettri di canna offerti dai suoi accoliti per ricordare il ritrovamento del dio in un canneto, il simulacro era trasportato dentro una caverna e riesumato tre giorni dopo. Tertulliano, sempre assai confidente nei propri mezzi, avrà l'infelice idea di dire che la crocefissione di Gesù avvenne proprio il 25 marzo; Lattanzio asserì quasi la medesima cosa, dicendo che morì il 23 e resuscitò tre giorni dopo.
Per gli ebrei il discorso è abbastanza più complesso, ma di norma la concezione della vittima espiatoria, che molti rivedono in Isaia 53 (addossandola come "profezia" su Gesù), era rivolta anch'essa al bene della comunità. Quanto al nesso del rituale di esorcismo comunitario, la pratica più antica era quella del capro per Azazel, che si teneva nel corso dello Yom Kippur, a settembre-ottobre. In questo rituale si sceglievano due capri, uno per soddisfare dio, e l'altro per placare Satana, che veniva coperto di sputi e percosse, così simbolicamente caricato dei peccati della comunità, condotto nel deserto ed impiccato sul ciglio di un burrone:
"Osserva questo: il capro mandato dagli israeliti ad Azazel nel deserto è stato inviato per dare all'altra parte una porzione di modo che essa non arrechi danno al popolo [...] Ed essi diedero la porzione a Satana, affinché li lasciasse in pace" (Zohar, Shemoth 2.184-185).
Nel periodo primaverile, ossia sei mesi dopo il rituale di cui sopra, e comunque prima della pasqua, il rituale più vicino al quadro evangelico è quello illustrato nel Libro di Ester, che era messo in scena di fatto con il festival dei Purim. Questa festa era probabilmente d'origine mista, dato che l'etimo del termine si richiamava al vocabolo assiro che indicava il sorteggio attraverso i dadi, ma principalmente si trattava della eco di un'antica pratica esorcistica comunitaria persiana, nella quale uno schiavo era caricato a dorso di un asino e praticamente sostituito al re legittimo; gli si permetteva persino di confiscare tributi, ma allo scadere del mandato fittizio doveva darsela a gambe, onde evitare che il popolo lo prendesse e lo impiccasse. Anche nei Purim il nucleo centrale era quello dell'impiccagione e sostituzione, ed aveva significato politico: nei panni di Mardocheo e Ester erano celati gli dèi nazionali babilonesi, Marduk e Ištar, che simboleggiavano l'anno nuovo, così come i loro rivali, Amman e Vashti, incarnavano l'anno uscente nelle spoglie degli dèi dei nemici tradizionali di Babilonia.<%pagebreak()%>All'interno del codice evangelico, il significato del fondamentale dualismo tra Luce e Tenebre avestico già mutuato agli esseni si palesa secondo varianti soffuse che si ricollegano ai rituali di sacrificio e sostituzione. L'antico tema dei due fratelli, molto in voga nel mondo classico unitamente a quello dell'Hero's Quest, contemplava queste varianti: di norma, come accade nel mito di Castore e Polluce, si trattava di uno schema di sostituzione o salvataggio, nel quale uno dei due elementi salvava o resuscitava l'altro dalla morte. Queste tematiche avevano molte varianti che non implicavano legami fraterni, sebbene persistesse comunque il tema del salvataggio — ad es. Orfeo ed Euridice o Eracle e Alcesti —; in certi altri casi, come nel mito di Quetzalcoatl e Xolotl, la storia contemplava analogie più complete, sebbene assai distanti nel tempo e nello spazio dal mondo mediterraneo.
Per quanto riguarda l'applicazione pratica, questi miti avevano una loro controparte pragmatica appunto nei rituali di persecuzione simulata, nei quali (per ovvi motivi) non si ripetono comunque i tipi dei personaggi mitici analoghi, ma della vita di tutti i giorni. Nel mondo classico tali rituali erano assai conosciuti. Molto probabilmente gli ebrei si accostarono a simili usanze in primo luogo seguendo la falsariga del sacrificio di Azazel, poi introducendo le tematiche cananee di Attar il Feroce ed infine proprio quelle del rituale del re fantoccio persiano: va da sé che nel tentativo di distaccarsi dai moduli decentrativi pagani ed ebraici, nella trama evangelica il modello geminale dovette giocoforza essere ulteriormente scomposto anche al fine di differenziare gli stages scenografici.
Al pari delle controfigure di Baal o di Attis (1), allo stesso modo Gesù possiede i suoi doppioni e sostituti; se Tommaso è l'alter ego gemellare nella sua forma anodina, e Giuda quello di Azazel, gli ultimi due costuiscono qualcosa di molto più complesso. I döppelganger del re-dio sacrificale evangelico diventano in tal modo addirittura quattro, ovverosia Tommaso, Giuda, Barabba e Simone di Cirene, tanto quanto nello Yom Kippur venivano utilizzate altrettante vittime, ossia due capri, un toro e un ariete: laddove nel Levitico si accenna solo al sacrificio dei primi tre, si tace sul destino dell'ultimo, che probabilmente non viene immolato appunto come intuiamo dai vangeli.
Alle formule simboliche esterne ai vangeli notiamo una corrispondenza estremamente interessante riguardo l'alias costituito da Simone da Cirene, parametro che riallacciamo alla vicenda Flaviana dei figli di Giuda il Galileo crocefissi nel 48 da Tiberio Alessandro. In primo luogo notiamo che quello evangelico è un personaggio intromissivo: lo citano solo i tre sinottici, mentre Giovanni asserisce che Gesù portò la croce da solo. Inoltre, questo tale proveniva dal lavoro nei campi, il che è impossibile, dati i divieti del periodo pasquale da osservarsi per qualsiasi ebreo, fosse d'origine estera o autoctono. Piuttosto che a un improbabile abitante della Cirene libica o della Siria (aram. Qir), che Quirino governava comunque con la Cilicia e che fu epicentro di parecchie rivolte giudaiche, il personaggio evangelico si riallaccia a un elemento avventizio di una rappresentazione teatrale, letteralmente "Simone, un cireneo", non "Simone da Cirene", secondo l'usuale sistema di attribuzione multipla che abbiamo già visto (2), perché è più certo che il termine qui riferito provenga piuttosto dalla glossa aramaica qara, che significa "incontro deliberato, premeditato", da un verbo che significa "recitare"; un termine che "Marco" non poteva spiegare all'audience romana.
L'appositivo ci indica in un secondo livello Kyrenius, traduzione latina dal greco di "Quirino" e "Cireneo", come una derivata di Kürrenius, ossia il nome sannita del Vecchio Marte. Si profilano una serie di metafore ben attinenti allo stesso stile della vicenda e del culto cristiano: alla ripetitività di liturgie legate al calendario si affianca quella della simulazione del fatto luttuoso così come accadeva per gli dèi pagani omologhi. Le fonti gnostiche avevano cristallizzato questo senso della cosa, la cui vague sarà successivamente ripresa dagli "eretici" nestoriani:
"[Gesù disse:] «Fu un altro, il loro padre, che bevve l'aceto con l'incenso; non fui io. Essi batterono me con la canna: ma fu un altro, Simone da Cirene, ad aver portato la croce sulla sua spalla. Io fui un altro fra quelli che piazzarono la corona di spine»"
riporta il Secondo Trattato del Grande Set. Affermazioni del genere, oltre a rimarcare l'indole non certo coraggiosa del "figlio di dio", già sottolineata dall'episodio della lapidazione al templio e della preghiera del Gethsemani, implicavano altre conseguenze ben più specifiche e a quanto pare abbastanza condivise. Lo gnostico Basilide, citato da Ireneo, asseriva che ad essere stato crocefisso non fu Gesù, bensì proprio Simone da Cirene, mentre il primo osservava la scena di nascosto, circostanze riportate pure nell'Apocalisse di Pietro; in aggiunta a ciò, dai vangeli è noto che Simone fosse stato padre di un tal Alessandro, ossia "Colui che allontana il male", che aveva trasportato la croce di Gesù e che aveva un gemello chiamato Rufo, cioè il Rosso.
A proposito di storia, tolte queste pedestri trasposizioni è molto più interessante notare infine che c'è un altro Alessandro dal peso storico più che rilevante, morto all'età di trentatrè anni nel mentre che avveniva una "grande oscurità" guarda caso alla sesta ora, vale a dire il Macedone, che ricevette la sua divina investitura a Siwa, presso Cirene (precisamente, a sud-ovest della località chiamata Qara, ove Alessandro si accampò), e che aveva anch'egli il suo "regolare" doppio, Efestione; l'altro dettaglio interessante è che Tiberio Alessandro, ebreo apostata, fosse nipote di Filone d'Alessandria.<%pagebreak()%>Ne In Flaccum, Filone ci racconta che nel corso della visita di Erode Agrippa nella capitale egizia durante il mandato di Flacco, un pover'uomo inoffensivo fu addobbato "come un attore negli spettacoli teatrali": dei monelli gli misero addosso degli abiti regali, una corona di carta e uno scettro di papiro, e lo costrinsero a circolare per la città accompagnato dallo scherno della folla, che lo percuoteva chiamandolo Carabbas, marin, maran'atha; il fatto avvenne pochi anni dopo la presunta crocefissione di Gesù, e, quel che è più importante, parecchio tempo prima di qualsiasi versione scritta dei vangeli.
Che si tratti di un'alterazione o di un termine proprio, Carabbas pare un simbolo di aliasing abbastanza notorio in ambito cripto-mitografico, a dispetto del mistero in cui è stato avvolto questo al pari di tanti altri dettagli del culto cristiano, al punto che non dovrebbe meravigliare se lo ritroveremo persino nel marchese di Carabas perraultiano. Posto che il primo nome derivi dalla radice kar ("agnello grasso"), Barabba proviene invece dalla locuzione bar-abbàs, cioè "figlio del padre", ove abbàs era un suppletivo per l'impronunziabile nome di dio; questo nome tenderebbe a contrapporre un "figlio del padre" — cioè, legittimo — al Gesù noto come "figlio di Maria", e al pari di quello di Tommaso si trattava piuttosto di un aggettivo che costituiva un titolo spirituale, non una designazione politica. La cosa diviene ulteriormente interessante, dacché nelle versioni originali di Matteo 27.18 (Codex Vaticanus), note fino al tempo d'Origene, che fu l'ultimo a citarlo, il nome compariva come Gesù Barabba, dopodichè il secondo termine scomparve da ogni altra redazione successiva. Non è necessario sottolineare la presenza del paradigma di sostituzione di stampo caldeo, piuttosto che semplicemente un problema di "aplografia" o una sorta di scontato conflitto faustiano fra "Gesù" e "Barabba":
"È come se si trattasse di due gemelli: uno regna sul mondo, l'altro si dà al brigantaggio. Poi, quest'ultimo è catturato e crocefisso, sicché chiunque passava di là diceva: «Pare che il re è stato crocefisso!». Il sovrano diede l'ordine, ed il gemello fu tirato giù"
sussurra sibillino il Talmud. Il simbolismo è peraltro marcato e reiterato: lo stesso appositivo Barsabba applicato a "un tal (sic!) Giuda" che accompagna Paolo negli Atti, costituisce anch'esso un termine di scelta probabilmente storpiato dal precedente, poiché era un soprannome attribuito al Giuseppe "anche detto il Giusto" che fu contrapposto nella scelta a Mattia proprio per sostituire l'iscariota; Sabas è invece una forma aramaica abbreviata riscontrata già in Daniele, che proviene dalla medesima radice formativa di Sabaoth, ossia il nome di dio.
È probabile che in origine pure il termine usato da Filone si leggesse Barabbas, pur non volendo malignare che sia stato emendato da qualche pio amanuense in epoca tarda, sebbene, ad ogni modo, pur in tal caso il succo della cosa non cambierebbe più di tanto, poiché sotto le spoglie letterarie si cela il modulo dualistico solstiziale.
È noto che a Sumer, donde gli ebrei avrebbero tratto le basi arcaiche della loro teologia, il Cancro era chiamato Nan.ga.ru (dizione arcaica), cioè "Carpentiere": nei vangeli, il termine aramaico naggar deriva più propriamente dalla precedente glossa sumera, ed è stato tradotto con il greco tektwn, cui viene dato il significato di "carpentiere" malgrado in aramaico avesse già assunto un senso assai simile all'ebraico rabbi. Non è certo in quale periodo tale dizione sia sopraggiunta, poiché Origene, per controbattere Celso, dice che in nessun vangelo dei suoi tempi Gesù era definito "carpentiere"; molto prima, il buon Giustino, prendendo il termine alla lettera, aveva detto il contrario per controbattere Trifone. Sappiamo, però, che nell'Egitto alessandrino il segno del mese di Tammuz, il Cancro, era chiamato Karabos, ovvero Scarabeo, in analogia con lo scarabeo solare Khepri, simbolo di creazione e resurrezione, che all'epoca faraonica rappresentava questa costellazione e che era comunemente definito l'Unigenito.
Fermiamoci momentaneamente qui, per quanto riguarda lo standard di sostituzione duale: continueremo nel prossimo capitolo ricollegandoci al sistema astrale, con uno standard duale replicato secondo modelli analoghi, ma traslato su grandezze effettivamente cosmiche.
(1) A proposito del quale vedasi il suo sostituto, il satiro Marsia, la cui pelle fu appesa a un pino.
(2) La voluta differenziazione è palese nelle differenti grafie dissimulatorie: abbiamo kurhnioV in Marco, kurenioV in Matteo. |
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