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Se procedessimo ad un confronto tra quanto leggiamo nelle Scritture e quanto si pratica nelle liturgie e nelle idee quotidiane occidentali, troveremmo che, date le sue caratteristiche, il "Dio-padre" di "Gesù di Nazareth" avrebbe ben poco da spartire con quello biblico, prevalentemente inaffidabile, iracondo, violento, addirittura in certi casi incapace d'avere la meglio sulle sue presunte creature. Già l'eretico Marcione sospettò qualcosa in merito: penso comunque che la diversificazione dell'icona divina globale risponda al livello culturale successivo al paganesimo, un po' come facciamo aggrappandoci a rappresentazioni d'onnipotenza che si sovrappongono al concetto arcaico di base, ammodernandolo alla superficie.
Nella società del nostro tempo riusciamo a trovare definizioni il cui significato sarebbe stato assolutamente incomprensibile ai compilatori degli scritti sacri del passato, dato che le ricaviamo da oggetti-concetto paragonati ad altri precedenti; per il compilatore della Torah sarebbe stato inconcepibile parlare di un dio che per poter essere onnipotente avrebbe dovuto risultare al contempo "zero" e "uno", esistente ed inesistente, nonché qualcosa che superi pure la restrizione imposta da tale dualismo.
A queste condizioni, decade anche la pretesa tommasiana per cui potremmo sapere soltanto ciò che Dio non è, non già ciò che egli è: difatti, definire qualcosa in base a ciò che esso stesso non è, non implicherebbe affatto conoscere le qualità dalle quali potremmo estrarre tale caratteristica, in quanto le "non-qualità" sarebbero ennesime (comprese quelle che, non potendo essere ancora conosciute, potrebbero benissimo essere presentate come caratteristiche di ciò che quell'oggetto è). Ciò accade perché necessitiamo adattare aprioristicamente a Dio un'icona di perfezione: quella di imperfezione non ci serve, poiché lo limita e ci limita.
Oggi possiamo anche pensare a un dio che, per poter essere perfetto, non solo avrebbe dovuto essere anche imperfetto, ma dovrebbe anche esser capace di distruggere e creare se stesso: proposizione difficoltosa, che assume seduta stante i crismi del blasfemo "materialistico", non essendo scomponibile alla stregua di definizioni come "Dio esiste perché lo dicono le scritture", o "perché lo attestano il buonsenso comune e la natura che ci circonda". A quel punto, la sua scomponibilità è prodotta da una sua inversione pensabile: cioè, possiamo pensare che essa sia confutabile, ma non troviamo le sue parti scomponibili né il preconcetto da cui essa è stata costruita, semplicemente perché esso non esiste. Ci troviamo dunque in stallo così come accade quando non riusciamo a pensare cosa costituisca le dimensioni di una particella elementare fondamentale, dal momento che essa sarebbe il mattone primario di qualsiasi altra.<%pagebreak()%>Esistono sinora tre teorie antropologiche fondamentali, per spiegare come nascono le religioni: in tutti e tre i casi, però, gli "scienziati di Dio", non potendo ammettere che quest'ultimo sia una costruzione umana, negano la loro validità avanzando "motivazioni" che si ripetono incessantemente con le medesime proposizioni.
Non staremo qui a delineare quel che caratterizza peculiarmente ciascuna teoria, lasciandone quindi la speculazione a chi volesse approfondire il discorso: ci limiteremo però a riferire le obiezioni. Ad es., riporto una "spiegazione-tipo" di tal Pat Zukeran, un predicatore americano che ripete a pappagallo le obiezioni degli "scienziati di Dio"; contro la prima tipologia (quella soggettivista, che designa le religioni come insieme di ideologie nate con l'uomo), l'apologista ci dice che essa
"may teach us about human nature, but it does not adequately explain the origin of religion or where this universal desire to know and understand God comes from (...) The Bible provides answers to the questions the subjective theory cannot answer. Genesis 1 states that we are created in the image of God"
Quindi, la teoria di cui sopra non sarebbe opinabile per il fatto che le "Scritture" dicono il contrario! Una spiegazione del genere, tipicamente aquinate, è chiaramente restrittiva, per non dire stupida: in una parola, non è auto-evidente. Manca qualsiasi legame logico e consequenziale tra le parti.
Per quanto riguarda la seconda teoria, quella evoluzionaria (snobisticamente etichettata come "darwiniana" dal recensore...):
"There are several problems with this theory. The first is that these stages of development have never actually been observed. There is no record of a culture moving in sequence from the mana stage to the monotheistic stage as described in the evolutionary model. With mana and animism, evolutionary proponents expect that cultures in these stages would be free of the notion of any gods. However, this is not the case. Animistic cultures have gods, and most have a belief in a supreme being. Finally, there is evidence that indicates religions actually develop in the opposite direction from the evolutionary model".
Anche in questo caso abbiamo degli errori non solo logici, ma di etica analitica. In primo luogo, il fatto che non sia stato possibile osservare questi stages evolutivi, non ne implica l'invalidità, poiché si tratterebbe chiaramente di processi vissuti, non certo spiegati da chi primitivamente avvertì la sensazione del "divino" nella storia; se così non fosse, dovremmo chiederci in che modo tali nozioni si trasmettono... Anzi, è proprio il fatto che "viviamo" le religioni nel tempo in cui esistiamo, ad inficiare questa visione: ed ecco dunque che sarebbe assai arduo cogliere il raccordo evolutivo col passato, e per tal motivo il teologo si riduce a parlare di "fenomeni innati".
L'ultima ipotesi (quella del "monoteismo originario") possiederebbe per il recensore un maggior grado d'accettabilità, ed ecco perché:
"This theory fits very well with what is revealed in Scripture. Genesis teaches us that God created man and that man lived according to his knowledge of God and His laws. However, from Adam's first act of disobedience, mankind continued his sinful path away from God. Paul summarizes this history in Romans 1. The theory of original monotheism is the most consistent with Scripture and appears to have strong historical support".
Pure questa osservazione è privo di validità, bigotta e risibile, soprattutto considerando che Zuckeran avesse introdotto il punto in questione dicendo che
"Cultures that are very primitive provide some of the strongest proof of original monotheism [...] In almost every culture around the world, the religion of a particular culture began with a concept of a masculine, creator God who lives in the heavens. He provided a moral law by which the people would enter into a relationship with him".
Tutto ciò è un semplice hysteron-proteron "analitico" innestato su non sequitur e petizioni di principio a catena, che tentano di estrarre dal particolare (primitivo) il generale ed invertire i termini.
Queste sono, dunque, le "obiezioni" dei "dotti di Dio": mere rimostranze, carenti di passi logici ab imis, nelle quali si notano profondi gap tra protasi ed apodosi. L'unica forza che esse possiedono, è l'auto-convinzione.
Tolto quanto premesso, a mio parere non avrebbe alcun senso ricercare quali siano le origini (storiche, soprattutto) di concetti quali Dio e simili; stabilire se siano stati tratti dall'eternazione delle funzioni di specie, anzichè da un'umanizzazione dell'ignoto e dell'incontrollabile, sarebbe equivalente a stabilire se sia nato prima l'uovo o la gallina.
La morte, le paure ed il rapporto con ciò che ci circonda, costituirebbero tutt'al più gli spunti inconsci dai quali l'uomo potrebbe aver tratto la necessità di cercare qualcosa su cui scaricarli: da questa necessità alla costruzione di un'icona rappresentativa, il passo non è, però, altrettanto breve. Potremmo dire che l'idea di Dio sia sorta con il nucleo sociale: l'individuo può dubitare di Dio, ma quando si riunisce in gruppi deve trovare qualcosa che annulli le particolarità di ciascuna personalità, ammortizzandole in un denominatore comune.
L'essere umano desidera fondamentalmente benessere e piacere, perché essi sono dei beni connessi all'auto-conservazione; poiché molto spesso questi beni sono ottenuti a scapito altrui, ecco che si è sentita la necessità di regolamentare la convivenza e la tendenza al sopruso. Dal momento che il "più forte" come individuo è comunque impotente, si impongono ulteriormente delle modifiche di compromesso all'accordo di convivenza, che scaturiscono in leggi di cooperazione; il "più forte" comanda con il beneplacito di chi lo riconosce atto al comando, ma al contempo deve far capire d'ammettere d'essere niente, al di fuori del gruppo.
Senza accorgercene, il pensiero di qualcosa sopra di noi serve dunque ad agire nell'alveo delle responsabilità umane, evitando inoltre dispersione di pensiero e d'azione: in tal modo, "Dio" diventa pure un "ammortizzatore", sicché, qualora fossimo privati di questo concetto superiore, di questo "strato" intangibile sopra le nostre teste, ci sentiremmo proiettati verso l'ignoto, senza "piedi per terra" né limite di riferimento.
La società necessitava dunque di un denominatore accomunante, proporzionale alla sua vastità, di modo avesse potuto fungere da "collante" tra gli individui ed incarnare la garanzia della legge. Dio è, dunque, essenzialmente un canone d'unificazione sociale conformato su un'idea di rispetto reciproco, benché "virtuale"; ciò ha dato innegabilmente origine al fatto che le prime legislazioni fossero contenute in "libri sacri". L'individuo che sfugge o rifiuta simili compromessi, nella misura in cui parliamo di religione come fulcro comportamentale sotterraneo della società, diventa automaticamente un "nemico pubblico".<%pagebreak()%>Riassumendo, la religione esiste e persiste per via di fattori semplici e fondamentali.
In primo luogo, essa è il ricettacolo della "scienza" che, occupandosi dell'Essere Supremo, è messa al di sopra di qualsiasi altra forma di conoscenza o teorismo umano; ciò si verificherà sin quando non converrà asserire che esistono cose più importanti, qualora si identificasse la religione piuttosto quale causa delle miserie umane.
In secondo luogo, essa è connessa alle funzioni naturali di specie (vita, morte, procreazione, lavoro), a cui ricordo l'uomo costruisce il proprio idolo; in special modo, la morte è la causa principale per cui l'uomo crea le sue divinità e i suoi ultramundia, nel tentativo d'eternarsi.
Come terzo punto, Dio è un equalizzatore sociale. Il potere è soltanto l'obiettivo secondario delle religioni: quello primario è "l'ordine" sociale. L'idea chiamata "Dio"fornisce un piano sovrastrutturale d'irragiungibilità ed al contempo un Limite, accordato con una scenografia nella quale noi, consapevoli del Limite medesimo, riusciamo ad agire con "libertà" di modo da estrinsecare la nostra particolarità personalistica.
Infine, Dio è un alias scevro da particolarismi personalistici: incarnando le ennesime ipotetiche personalità umane che confluiscono in una società, esso si pone al di sopra delle "bassezze" umane.
Pur se "potrebbe", dio non mangia, non ha una consorte isterica, non arriva mai in ritardo, non lavora, non ha un ascendente come qualsiasi essere che nasce e muore... è una maschera che supera il Limite della determinazione, così da eternarci ed onnipotentificarci: incapaci di capire che, già definendolo "indefinibile" e "totaliter aliter", lo abbiamo già definito comunque.
Concludendo, non dovete chiedervi se la religione, per quanto falsa, "aiuti" l'essere umano in molteplici casi, ma bensì: "È giusto che una falsità continui a persistere, pur dopo che l'abbiamo riconosciuta come tale?". |
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