Il "credente medio" ritiene che la prima prova "indubitabile" dell'esistenza di Dio, siano quei testi che ne parlano. In particolare, tutt'oggi uno di questi "libri divini" risulta essere il più diffuso sul pianeta: mi riferisco a quello del "popolo ebraico".
Dal momento che i vangeli verranno esaminati estensivamente a parte, tratterò qui della Bibbia (nel senso di "Vecchio Testamento") perché, essendo incentrata sul "popolo di Gesù" e sul suo presunto dio-padre, essa costituisce la "fonte" da cui i vangeli traggono "sicurezza" e articoli di fede: non per nulla, per motivi che non occorre sottolineare, i cristiani sono sempre i primi a cercare una giustificazione alle molte incongruenze macroscopiche di questo libro, mentre in altre circostanze sono prontissimi a dire che Yahveh non sia il dio mandante di Gesù e che l'ebraismo non abbia nulla a che fare col cristianesimo (come si sentenziava già dal tempo del buon Tertulliano). In fondo, si tratta pur sempre del libro "sacro" dei "deicidi", no?

Posponendo momentaneamente la "realtà storica" della Bibbia, qui mi diffonderò piuttosto del suo lato "logico", di modo da illustrare la scarsissima plausibilità del dio di cui essa parla. Al fine di poter agevolare un'introduzione quantopiù indolore all'argomento, è necessario premettere che l'ebraismo sia indiscutibilmente un misto di componenti eterogenee che, essendo state distillate dalla pretesa d'unicità divina, hanno dato vita ad un modello apparentemente originale: questo dettaglio non va a squalifica dell'ebraicità, dato che nessuna civiltà al mondo può dire d'essere unica, originale e avulsa da contaminazioni con altri popoli, purché si abbia l'onestà d'ammetterlo.
Gli ebrei intesi come nazione a sé stante sono emersi molto tempo dopo il presunto periodo di Abramo: in precedenza facevano parte di un gruppo etnico chiamato 'hapiru, un coacervo eterogeneo di predoni e mercenari citati per la prima volta nel 2000 a. c. nella Lettera di Shulgi, nel Papiro di Brooklyn e di Leida, frequentemente nei documenti di Nuzi, Mari e nelle Lettere di Tell el-Amarna. Prima del 1000 a. c., però, non esiste alcuna menzione diretta agli ebrei.

Le più antiche redazioni scritte della Bibbia sono anch'esse tarde, poiché risalgono tutt'al più a quasi mezzo millennio dopo il presunto tempo di David, mentre il documento fondamentale ricalca l'opera di Esdra: si tratta, dunque, di una compilazione successiva al tempo di Ciro, il quale accordò per l'appunto la ricostruzione del Templio e la ricompilazione della Torah, compito cui poi Esdra assolse sotto Artaserse II, avvalendosi d'una trentina di fonti (il Libro di Yasher, le Profezie di Ahiza, gli Atti di David, gli Atti di Mosé, i Libri dell'Eden etc.), delle quali poco o nulla sappiamo.
Ad aggravare il tutto, nel Libro dei Re leggiamo che Giosia ricavò la legge di Mosé da un testo ritrovato dal sacerdote Ilcia nella Casa del Signore: prima di quella "riscoperta", il testo biblico "originale" era scomparso per oltre 800 anni dal presunto tempo della morte di Mosé, suo altrettanto simbolico compilatore. Come se non bastasse, sin dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Tito non esisterà un canone unico della Bibbia, che così com'è più o meno definitivamente nacque agli effetti cento anni dopo Esdra: per non parlare delle diverse versioni che sono state elaborate successivamente (Settanta, Vulgata, ebraica, e via di seguito).

Quindi, la Bibbia è un testo recente, come del resto lo è persino la stessa lingua ebraica, che risulta d'origine pagana: la cosiddetta "quadrata ebraica" attuale fu introdotta anch'essa proprio da Esdra, e ricalca dialetti cananeo-aramaici. Non solo: anche la struttura e la maggior parte dei temi biblici è di provenienza allogena.
Per citare solo alcuni esempi, il Genesi ha un parallelo sia strutturale che concettuale nell'Enuma Elish, l'epos di Marduk; il diluvio è già presente nella tavoletta XI del poema di Gilgamesh, che è anche l'antesignano di Sansone; il racconto di Caino e Abele ricalca la vicenda avestica di Manu e Yima, miscelata alla favola egiziana dei due fratelli ed al poema cananeo di Aqat e Daniel; Mosé dato alle acque è preceduto dalla storia akkadiana mitizzata di Sargon I il Grande (del 3400 a. c.!!!); David e Golia riecheggiano la storia egizia di Sinuhe, del II millennio; la creazione di Adamo è preceduta dall'epos sumera della Creazione di Adapa e le sequenze dei patriarchi dalle dinastie divine del Prisma di Weld-Blundell, entrambi risalenti a mille anni prima; buona parte delle leggi del Deuteronomio sono già riscontrate agli effetti nel Codice di Hammurabi, di Hatti, di Ebla e di Mari; parecchi Proverbi riecheggiano i detti del saggio egizio Amenope, ed in particolare il trentesimo si rifà all'epos sumerica di Etana, che è anche il modello secondario del Lucifero di Isaia, poi ripreso pure nel Bellerofonte greco; certuni Salmi sono assai simili dall'Inno ad Aton di Akhenaton ed al Ciclo di Baal; il Cantico dei Cantici riecheggia la Canzone di Tammuz ed Ishtar e la tavoletta X dell'onnipresente epos del re di Uruk; il Libro di Giobbe compendia il poemetto babilonese Ludlul Bel Nimeqi misto alla favola cananea di Keret... I paralleli e le anticipazioni sarebbero tantissimi.

Queste fonti erano ancora circolanti fino ad epoca abbastanza tarda, soprattutto nei luoghi in cui gli "ebrei" si trovarono via via deportati durante i secoli; pertanto, i compilatori della Bibbia non videro di meglio che adattarle alle necessità etniche e ripresentarle come prodotto esclusivo della cultura ebraica. Tutta questa eterogeneità diede però origine a una babelica confusione di fonti, che si riflette nella medesima struttura ermeneutica del documento e nelle aporie in cui incorsero i suoi redattori, come stiamo per vedere.
<%pagebreak()%>Il dio che riscontriamo nel Genesi da Adamo a Noé, nel Libro di Giobbe e certe altre parti intermissive della Bibbia, rivela caratteristiche strettamente stanziali, e si chiama prevalentemente El; che era la divinità suprema dei cananei, un popolo che al tempo in cui gli ebrei si trovavano ancora in uno stadio di profonda primitività, possedeva già una cultura molto avanzata ed era certamente in contatto con l'area mesopotamica (con la quale condivide lo stesso radicale proto-semitico che designa il termine "dio", ossia "el", "ilu"). Non a caso, appunto dall'alfabeto di Ugarit, centro di culto del sommo dio cananeo al pari di Ebla, deriva quello ebraico e qualsiasi altro del mondo moderno: le prime avvisaglie della lingua ebraica non sono distinguibili dai dialetti di Canaan e da forme arcaiche di aramaico, risultando più vicine alle lingue dei deserti dell'Arabia nord-occidentale.

Buona parte del Pentateuco riecheggia, invece, la presenza di un dio chiamato Yahvéh, che riflette una cultura ancora barbara ed incerta, di passaggio dal calcolitico all'età del ferro: o, per meglio dire, il ritorno ad uno stadio di barbarie.
In questo senso, si parla a tutt'oggi di due differenti redazioni: quella Elohimica, la prima, e la Yahvìtica, alle quali si unì, in tempi assai recenti, una terza variante, la Sacerdotale. La confusione è scusata, ma non certo la discendenza divina; difatti, il passaggio al dio unico s'avverte molto tempo dopo la parentesi akhenatoniana, intorno all'ottavo secolo, al contempo che si registra l'evoluzione dei corrispettivi finitimi di Yahvéh (cioè Quoash ancora a Edom, Moloch a Moab, Dagon in Filistea, Chemosh ad Ammon).
Certo è che, se il modello del dio di tipo elohìmico rispecchia più prettamente la mitologia cananea e sumera, quello della seconda redazione dimostra notevoli affinità con divinità indeuropee come Indra e Apollo: molto probabilmente, esistevano delle radici in comune fra terminologie semiticizzate ed indeuropee, poi trafilate e miscelate col tramite di qualche civiltà commerciale che agì da mediatore, ad esempio quella cicladica e siro-fenicia, dato che nel Ciclo di Baal si cita frequentemente sia Creta che l'egizia Memphis, su cui presiede il dio Khotar-wa-khasis, lo Ptah di Canaan. Dall'altro lato, è notorio che il radicale glottologico yaw fosse noto anche in ambiente indeuropeo, visto che esisteva fin da tremila anni prima di cristo nella Valle dell'Indo, con cui commerciavano i sumeri: questa radice costituisce per l'appunto la base di diversi appositivi di Indra, il perfetto equivalente induista del Yahvéh Sabaoth ebraico.

Diffuso dal Negev a Edom, Yahvéh era di certo la divinità etnica degli 'hapiru, non un dio pantheonico come lo fu El, che nei testi cananei troviamo già menzionato addirittura come padre di Yahvéh; sembra, peraltro, che questo dio sia assimilabile a Baal Zephon, adorato sotto il nome di Seth dagli hyksos, alla cui compagine avevano aderito gli 'hapiru durante l'intermezzo egizio di Avaris.
Se le fonti esterne convalidano una discendenza cananea, la stessa Bibbia ci dice che Yahvéh fosse un dio locale e secondario, sottoposto alle decisioni degli elohìm, ossia il concilio degli dèi presieduto da El, chiamato Adat El ("Concilio di Dio"!!!) dai cananei, e che più tardi verrà fatto passare esclusivamente per un plurale majestatis. Ma proprio la Bibbia ci fa capire che Yahvéh fosse un dio sottomesso, secondario, derivato, che aveva ricevuto incarico da El, che è quindi suo superiore e distinto da lui:

"Quando Elyon stabilì le nazioni, divise l'umanità in base al numero di dèi [...] e Yahvéh fu dato a Giacobbe" (Deut. 32.8-9).

Fra parentesi, Elyon, ossia El-elyon, ovvero Elianu, "l'Altissimo", era anche il dio dei gebusei, e costituiva null'altro che l'ennesima variante locale del cananeo El; cosa che sicuramente gli estensori sapevano, dato che, nella versione originale ebraica del passo di cui sopra, Yahvéh è sostituito dal più comodo "Signore"...
Nella Bibbia ritroviamo parecchie di queste solari reminiscenze: quando Abacuc ci parla della "Peste" e della "Febbre" che "incedono dinnanzi al Signore", questi termini sono stati tradotti di larga mano dagli originali Reshef e Deber, nomi di due divinità cananee appunto della pestilenza e della febbre, che accompagnavano il dio Baal nello scontro contro il serpente Yamm e le sue schiere, antesignani di Satana e compagni.

Possiamo definire impropria pure la tesi per cui Yahvéh sia stato esclusivamente circoscritto all'area geografica "stabilmente" occupata dagli ebrei. Testi della Siria, della Persia e del Sinai del I millennio lo menzionano; altari dell'età del ferro a lui dedicati nella variante di Yehouah sono stati scoperti ad Arad e Bersheeba; parecchie iscrizioni lo citano a Teman e Samaria, di cui è dichiarato dio patrono insieme alla consorte (si, il dio aveva una moglie, fuori da Israele...) Ashera, già a suo tempo paredra di El nel pantheon cananeo, e lo stesso dicasi per gli ostraka ed i papiri di Elefantina: templi ebraici a lui dedicati sorsero ad Araq-el-Amir, in Cirenaica, e Leontopoli. Un dio chiamato Yeho fu adorato nel Mediterraneo orientale fino ad epoca ellenistica; Filone da Byblos ed Eusebio da Cesarea lo chiamano Yeo e Ieuw, noto in Siria settentrionale. Dal 1300 a. c. Yahvéh è menzionato come Yehouah in iscrizioni egizie a proposito di popolazioni stanziate a Edom (donde lo fa provenire Abacuc); elementi di nomi personali (inclusi alcuni di sovrani) da documenti di Ebla ed Ugarit lo riallacciano alla radice Yeho come forma di diminutivo per indicare una sorta di fastidioso "piccolo El".

Il Yahvéh biblico è dunque un dio d'origine politeista, noto in un vasto raggio territoriale, e divenuto somma divinità locale ebraica in un periodo storico quasi contemporaneo allo Zeus greco: e, come accade per i suoi corrispettivi extra-giudaici, è sottoposto ai medesimi problemi di credibilità.<%pagebreak()%>Messo momentaneamente da parte l'enigmatico dio "trascendente" evangelico, che già Marcione differenziava da quello biblico, notiamo una sequela di dettagli parecchio singolari a proposito di quest'ultimo: dettagli che non dovrebbero affatto sussistere nel libro ritenuto espressione della sua parola, e che ben giustificherebbero la necessità di un dio più "preciso" da parte di chi s'incaricò d'allestire l'"evoluzione teologica" cristiana.

"Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi vuole fare santi", dice Yahvéh nel Deuteronomio; ma proprio ad osservare queste "leggi", dubitiamo siano il viatico per la santità.
Se le incongruenze che riscontriamo negli episodi che spaziano da Adamo a Noé ci suggeriscono piuttosto una divinità affetta da demenza senile, dall'altro canto Yahvéh è caratterizzato da una sistematica predilezione per il paradosso e la violenza: la sua politica può essere sintetizzata per massima statistica nel costante utilizzo di formule d'ammonizione, rampogne, ricatti, vendette, esempi truculenti di minaccia, secondo lo schema "se fai... allora... altrimenti".

Tolti i cosiddetti miracoli e certi episodi teatrali di dubbia provenienza, le minacce, i vaticinii e le promesse convergono a formare il substrato primario dell'agenda di Yahvéh, costituendo il motivo per cui la sua figura di basso profilo si è impressa nell'inconscio di massa. Qualsiasi sua proposizioneè assolutamente distante dall'olimpica comprensione rassegnata con cui il paterno El interagisce con l'uomo, malgrado i libri che parlano di entrambi dovettero essere stati scritti dal medesimo autore; Yahvéh sembra piuttosto un sulfureo Lucignolo infantilisticamente capriccioso, invidioso e geloso, anziché un padre paziente quale vorrebbe apparire.

Come il dio della peste babilonese Nergal, Yahvéh è un dio instabile, che si infiamma e si pente a ciclo continuo, in più di un'occasione: Exd. 32.14; Deut. 32.39; 1 Re 15.11, 2 Re 24.16; 1 Chr. 21.15; Ger. 15.6, 18.8, 26.3-19, 42.10; Amos 7.3-6.

È un dio vendicativo e puerilmente ricattatore, come vediamo ad esempio emblematico al 28.15 del Deuteronomio; è addirittura un dio che giura, come accade in Exd. 17.14-16, Isa. 49.13 e 51.14, Nmr. 32.10 ed Amos 6.8, ove giura nientemeno che sulla propria anima (e deve pur averla, a giudicare da Zaccaria 11.8).

Il numen super partes della mitologia ebraico-cristiana, in altri casi convenientemente disinteressato alle magagne umane, mette pure frequentemente alla prova i suoi servi, come accade a partire dalla vicenda del peccato originale (vedasi anche Deut. 13.4, 2 Chr. 32.31, Gen. 18.20-21, 1.5 e 22.2-13).

La sua principale caratteristica, la contraddittorietà, è illustrata con grande dovizia d'esempi: vedasi Nah. 1.2 e Isa. 27.4; Deut. 15.4 e 15.11 (spettacolare); Exd. 34.1-4; 4 Re 22.20 e 2 Chr. 35.23-24; Nmr. 20ss (sublime); Ger. 34.4 e 52.10-11.
Inoltre, Yahvéh mente e istiga alla menzogna in svariate occasioni (4 Re 8.10, Ger. 20.7, Eze. 14.9, 2 Chr. 8-10 e 18.18ss, per citarne alcune), e dimostra una propensione elettiva per l'ineffidabilità, tale che le sue promesse sono frequentemente disilluse dalla storia.

Si tratta, alfine, di un dio di cui si può ridere non meno di quelli adorati dai pagani: in passi come ad es. Exd. 21.28 e 22.2, Deut. 23.14 o Sal. 78.65, si evidenzia una spiccata vena per il comico e l'assurdo talmente generosa, da sembrare quasi provocatoria.

È necessario sottolineare che la maggior parte delle leggi sparse dall'Esodo al Levitico, il cui canone di giustizia è ben illustrato fra tanti passi ad esempio ne Nmr. 16.20-50 e Deut. 11.1, siano una sfilza di precetti espunti prevalentemente dal Codice di Hammurabi, dai palinsesti pagani di Mari e di Hatti, adattati in maniera grottesca e sistematicamente chiosati regolarmente dal riverberante leit-motiv ipnotico "io, il Signore".
La Bibbia ci fa capire che il dio detti delle leggi per "responsabilizzare" l'uomo, non perché sarebbe incapacitato a rimediare di persona: se Yahvéh intima di rendere il mantello al legittimo possessore, come accade al 22.27 dell'Esodo, è implicito che lo faccia a questo fine, dato che potrebbe ugualmente esaudire la supplica del proprietario! Se poi questo accada o meno nella realtà, è chiaro che dipenda dalla fede di chi prega...

Articoli come questo ed i seguenti costituiscono oltre la metà della media statistica delle leggi bibliche, intervallati ad hoc fra passi favorevoli opportunamente giustapposti. Eccone alcuni tra i più lampanti.

Se possiedi uno schiavo, puoi percuoterlo quanto vuoi, poiché è danaro tuo; se ti muore nel momento sotto i colpi, anche tu verrai ucciso, ma se muore dopo essere sopravvissuto per uno o due giorni, sarai immune da giudizio (Exd. 21.20-21).
Se un bue ferisce un passante, l'animale ed il proprietario verranno messi a morte nel caso in cui il bue è recidivo, qualora le vittime erano uomini liberi e se in cambio della vita il possessore non potrà fornire ammenda pecuniaria; qualora il bue uccidesse un suo simile, i proprietari si spartiranno il cadavere e la somma di quello vivo, che venderanno (21.28).
Se ammazzi un ladro di notte mentre sta scassinando casa tua, non sarai chiamato ad espiare il delitto, ma se lo compi di giorno, sarai messo a morte (22.2).
Se percuoti un uomo con un pugno o una pietra, e questi non morrà, ma sarà comunque costretto a letto, gli risarcirai il lavoro perduto e le cure dei medici (22.18).

Sulla medesima falsariga si pongono brani dell'Esodo (21ss, 22ss, 34.20), e del Levitico (19.20, 21.16-23), nei quali i servi, al pari delle bestie, sono proprietà pecuniaria del pater familias, che rivendica diritto di vita e di morte sui suoi beni (v. anche Exd. 12.1-10 e 22.16-17, Deut. 23.13-21, 24.1-4 e 25.11-12, Nmr. 5.11-31, Lvt. 19.29 e 20.18); quest'atteggiamento selettivo si sviluppa pragmaticamente nelle disposizioni previste nei confronti dei bambini, e soprattutto delle donne.

Se adeschi una fanciulla e compi con lei "le cose innominabili", la doterai e la sposerai, a meno che suo padre non te la rifiuterà: in quel caso, gli pagherai il prezzo corrente sul mercato per la dote di una vergine (Exd. 22.16-17).
Se due uomini litigano e la moglie di uno dei due afferra l'avversario "per le sue vergogne" onde salvare il marito, le verrà tagliata la mano, con la specificazione che il boia non dovrà avere alcuna pietà per lei (Deut. 25.11-12).
Se nel corso di una rissa un uomo percuote una donna incinta ed essa abortisce, l'assalitore risarcirà il padre della perdita del nascituro secondo quanto stabilito dai seniori (Exd. 22.22).

Non meglio andiamo per quel che riguarda i precetti di culto e di comportamento. Durante il periodo dell'Esodo, Yahvéh rimette in discussione la sua saggezza, salendo in cattedra per impartire delle nozioni d'igiene, ad esempio per quel che riguarda i rimedi in caso di epidemie (v. Lvt. 14.2-32) o i metodi di profilassi ed etichetta medica da seguire ad esempio nel Levitico al 20.14, la concessione di 17.18, l'esagerazione e l'oltraggio di 20.18 e 25.36-55, la discriminazione di 19.20-22 e 21.16-23 echeggiata ne Deut. 23.1, il metodo da consultorio shamanico di Nmr. 5.11-31, oppure le "regole per la purificazione degli impuri" dettate al 19.1-22.

Nonostante la sua presumibile super-dottrina medica, l'essere onnipotente, misericordioso, creatore del Tutto, molto spesso è incapace di curare in un batter d'occhio le malattie più banali che affliggono le sue stesse (presunte) creature, che è sollecito a tormentare frequentemente con pestilenze ed altre magagne: anzi, il misericordioso Yahvéh ordina giudiziosamente ai suoi servi d'allontanare i lebbrosi, chi soffre di perdite seminali e chi si è accostato a un cadavere, affinché non contaminino il campo per tutto il periodo in cui il signore camminerà in esso (Exd. 5.14).
Le prescrizioni di toilette del Deuteronomio chiosano in maniera esemplare tutti questi precetti del tempo in cui dio camminava ancora fra le sue creature:

"Terrai fuori degli accampamenti un luogo nel quale andare per scaricare le tue necessità corporali [...] porterai teco un piolo, e quando ti rialzerai scaverai intorno onde ricoprire di terra ciò di cui ti sei sgravato. [Poiché] il signore dimora in mezzo agli alloggiamenti per salvarti e mettere in tuo potere i tuoi nemici" (23.9-14).

Alla fine, il poliedrico divino tuttofare dei deserti smonta il suo piglio altero, e riveste i panni del designer, dettando i piani costruttivi dell'arca, del templio, delle sue suppellettili, delle stesse vesti dei sacerdoti: il santo libro non ci dice, però, dove i fuggiaschi possano aver mai reperito beni quali il bisso, la porpora, la cassia, il legno di cedro del Libano e d'acacia, le pelli di tasso, il cocco, la coppale, la mirra, l'uva, la farina fina, il galbano, lo storace, l'olio d'oliva e tanto altro, fuggendo in fretta e furia da un Egitto prostrato da disastri apocalittici. Né poterono averli commerciati o trovati in una distesa brulla e sterile come il Sinai: ove non esiste nemmeno la benché minima traccia archeologica significativa su un popolo di milioni di anime, che dovette aver vissuto in quei luoghi per oltre quarant'anni.
Eppure, gli ebrei avrebbero dimorato qui, alloggiati in un campo di ben 6 kilometri quadrati, che Yahvéh, sfidato da Mosé, provvede a riempire immantinente con una distesa di quaglie "provenienti dal mare", che si accatastano al suolo formando uno strato di quasi un metro sparso per la distesa di 24 kilometri quadrati (Nmr. 11.31ss): e per la grande ingordigia con cui i beati fuggiaschi divoravano questo miracoloso pasto, il munifico dio li punì con l'ennesima pestilenza... Troppa grazia!

C'è da consolarsi del fatto che quantomeno un mistero sia già stato chiarito oramai da tempo: la favolosa manna di cui gli ebrei dovettero nutrirsi per tutto questo periodo, integrando la dieta forzata offerta loro dal premuroso Signore Onnipotente, sia piuttosto la secrezione della tamerice mannifera, prodotta da un parassita del tronco della pianta, molto comune nel Sinai, e che i beduini locali usano a tutt'oggi, chiamandola col medesimo nome dei loro antenati. Lo sappiamo certamente meglio di Mosé, al quale non sembra sia stato chiaro se il suo sapore fosse simile al miele (Exd. 16.31) o "all'olio fino" (Num. 11.8).<%pagebreak()%>Le caratteristiche peculiari di questo "dio sommo" risaltano tutte proprio al tempo del presunto autore del Pentateuco: un contesto alquanto sintomatico della realtà formativa del yahvismo.
In tutto questo periodo (uno stadio di transizione che culminerà con la narrazione di Giosué) il tema basilare è essenzialmente a carattere militare e demagogico, null'altro.
<%pagebreak()%>
Sotto la guida di Yahvéh, il condottiero riporta strabilianti vittorie, ad esempio contro il popolo del suo stesso suocero, predando ingente bottino e deportando ben 32.000 tra donne vergini e bambine, dei quali beneficerà pure il dio (Nmr. 31.1-54, 28.29), dopo che Mosé ne ebbe "scremato" ben 60.000 facendo uccidere i maschi e le donne libate (14.15).
Mettendo di lato i bambini, non ci è dato sapere che fine abbiano fatto le donne vergini. Chiaro è che non possano essere state destinate a soddisfare le voglie di Yahvéh, sebbene il dio fosse piuttosto antropomorfo e concreto anziché immateriale, come ci dicono Mosé stesso (Exd. 33) e Abramo, al quale appare in forma d'uomo promettendogli di renderlo padre entro breve tempo: sorte condivisa a tutte le donne sterili che partorivano, poi, eroi o uomini di riguardo. Senza dubbio non possono aver servito nei templi, poiché alle donne non era consentito: né potremmo malignare che a beneficiare delle loro grazie fossero i sacerdoti, che, come accadeva a Babilonia, si intrufolavano nei templi sotto le spoglie di dèi, per giacere con la "fortunata" di turno...

L'avidità di stragi di Yahvéh è pienamente certificata in varie circostanze (vedasi Lvt. 29.11-37, Exd. 25.1-5, Eze. 9.5-6), già a partire dal compiacimento con cui si descrivono le operazioni sacrificali. Prodigandosi in rampogne sui sacrifici umani devoluti al concorrente Moloch, il dio ebraico ingiunge: "Offrirai a me il primogenito dei tuoi figliuoli, e lo stesso farai con quelli delle tue bestie" (Exd. 22.28-30).
Premesso che quando nella Bibbia si parla di "offerta" a Yahvéh si intende un sacrificio prevalentemente di sangue, è noto che le bestie fossero sacrificate: ma dato che Yahvéh non potrebbe essere "mai" stato un dio cannibale, a cosa gli servivano i "primogeniti degli uomini"? A votarli al nazireato? No: quello era un voto di chiamata diretto, espressamente imposto da dio solo a pochi. Servivano forse per farli diventare sacerdoti nel templio? No: questi erano scelti soltanto tra i membri della tribù di Levi, non di tutto Israele, nè tantomeno tra le prede di guerra straniere. Difatti, molto più avanti, Yahvéh cambia idea anche in questo caso (Nmr. 3.41ss), pretendendo questi servi solo da Levi.

I bambini come esseri sacrificabili "per il bene della comunità" non sono una cosa inaudita, nella Bibbia. Inoltre, oggi sappiamo che pure gli ebrei praticarono culti infanticidi, sebbene gli storici dicano che si trattasse di "apostata" adoratori di "falsi dèi": poteva mai essere che Yahvéh imponesse sacrifici umani, se lui stesso avversava gli accoliti di dèi concorrenti perché praticavano questi rituali? No di certo! Epperò, lo stesso Levitico ci fa capire che qualsiasi cosa votata al dio, sia animale che umana, dovesse essere messa a morte (27.2)!
Più sicuramente, vicende come quella della figlia di Jefte nel Libro dei Giudici, il primo dei cosiddetti libri storici, potrebbero portare a nuove considerazioni sul destino di queste vergini, ed in genere sul vero volto di questo tremendo e sanguinario dio.
Per adempiere ad un voto nei confronti di Yahvéh, osannato come "giusto sterminatore d'innocenti" nell'Epistola agli ebrei, Jefte — il figlio di una prostituta, lodato come "virtuoso esempio d'obbedienza" ancora nella medesima lettera di cui sopra — deve sacrificare la propria figlia, che non ha nulla da ridire sul proposito del padre; il libro ci dice che il condottiero si accinge al compito, ma anche in tal caso si tace sull'epilogo della vicenda (peraltro assai simile al copione del sacrificio della vergine Ifigenia omerica).
Ancora in questo gran bel libro troviamo altri esempi che solo la mancanza di commenti contribuisce a far passare in discrezione, nella speranza che siano simbolici (anche perché si tratta quasi di una replica dell'altrettanto poco edificante vicenda dei sodomiti di Loth). qui si parla di un levìta che cede la concubina del suo ospite per saziare le libidini sodomitiche della calca di Gabaa, e, dopo che la donna è stata ridotta ai minimi termini, la smembra in dodici pezzi, che invia come proclama di guerra per tutto Israele al fine di vendicare lo scempio (19.22)... compiuto dai violentatori!

Nel testo il gusto per la strage si sviluppa con continuità, intrecciandosi a quello per il paradossale ed il contraddittorio; il sacrificio cruento, descritto sin nei dettagli più minuziosi, indica un dio che sembra quasi godere morbosamente dell'eccidio, anche ai danni dei suoi stessi protetti, come accade frequentemente con l'ascesa di Mosé, quello stesso che ammazza l'egiziano "dopo essersi assicurato che nessuno lo osserva": secondo il Deuteronomio (27.24), attribuito proprio a lui, dio maledice anche chi fa un'azione del genere (forse per questo motivo David si assicurava sempre d'eliminare tutti i testimoni superstiti, dopo ogni sua scorribanda). Dunque, non dobbiamo stupirci di tutti questi preferenzialismi e stranezze.

Prima della discesa dal Sinai, Yahvéh aveva mutato per l'ennesima volta parere sul proposito di decimare gli idolatri dopo averne mercanteggiato la vita con il suo eletto come un dettagliante da fiera paesana:

"Il signore disse allora a Mosé: «Lasciami fare, non impedire (sic!) che la mia collera si sfoghi su di loro»" (Exd. 32.7-14).

Dopo una pausa di riflessione e varie fasi di contrattazione con il suo esecutore, il dio gli ordina di sterminare i connazionali apostata, che, se dovessimo credere alla Bibbia, si lascerebbero piamente scannare da amici e parenti quasi per riconosciuta colposità, offrendosi a una "consacrazione" veramente edificante per i loro carnefici:

"[Mosé] disse: «Chi è del signore venga con me». Si riunirono dunque a lui tutti i figli di Levi, e Mosé disse loro: «Il signore dio d'Israele dice così: 'Ognuno di voi cinga una spada, andate e tornate da una parte all'altra del campo e ciascuno uccida financo il fratello, l'amico o il prossimo suo!'». Fecero i figli di Levi secondo gli ordini di Mosé, e caddero quel giorno ventitremila uomini. Disse allora Mosé: «Ciascuno di voi ha consacrato oggi al Signore le sue mani nel figlio e nel fratello suo, e ve ne sarà data benedizione»" (Exd. 32.26-29).

Nel caso di Mosé, è più opinabile che si tratti di simbolismi di eventi possibilmente verificatisi storicamente in scala ridotta, e poi gonfiati in maniera spropositata nelle pagine bibliche a cagione di una disperata necessità di auto-affermazione mitomaniaca degli israeliti; non si vedrebbe in quale altro modo potremmo definire certi fatti biblici che non riscuotono alcun riscontro storico al di fuori del gran libro, e per i quali spesso e volentieri si invoca puerilmente la salvifica "imperscrutabilità" dei "disegni divini".

Si avverte una sorta d'esagerazione ingiustificata, quasi un vizio di forma compiaciuto, nell'arricchire fatti minimali magari storicamente verificatisi in un contesto ristretto, ed amplificarli a livello universale (operazione che probabilmente non suscita interrogativi, perché si ha a che fare con un dio); anzi, non può suscitarne proprio perché è favola. Accade così che l'Eletto ed i suoi epigoni decimano, come se si trattasse di fare una scampagnata, centinaia di migliaia di persone, tali da rappresentare da sole l'intera popolazione del Medioriente d'allora, salvo dettagli puramente iperbolici. Il fatto che egli poté disporre di circa 60.000 uomini atti alle armi contro i 20.000 dell'esercito egizio, di cui ci viene fornito persino il nome di ciascun reggimento, ma non si impadronisce di una nazione prostrata dai miracoli divini, istiga a sceverare le eventuali motivazioni etiche del proponimento mancato, dato che con un esercito di soli 25.000 elementi il Macedone conquistò non solo l'Egitto e la Persia, ma si spinse fino alle porte dell'India; probabilmente ciò non avvenne perché il fine del giusto e pacifico Yahvéh era quello di far fuggire i suoi protetti alla conquista di un'altrui terra promessa, che, ai dati di fatto, non è certo cosparsa di fiumi di latte e miele.

Il numero dei soldati di Mosé è nulla, al confronto con quella che avrebbe dovuto essere l'intera popolazione degli esuli, divenuti svariati milioni nel giro di pochi secoli a dispetto della genetica umana: singolarmente, dopo trent'anni questa torma di soldati sparisce ex abrupto come la legione Deiotariana nelle sabbie del deserto egiziano (Deut. 2.14). La cosa più singolare è che, nonostante episodi al cui confronto Pearl Harbor è simile a una scaramuccia di quartiere, alla fine la situazione si risolve invariabilmente in un nulla di fatto: ed anzi, talora peggio di prima.

Casi come questi non sono isolati: contando le campagne di David e Giosué, sarebbero milioni i morti ed i prigionieri mietuti dai seguaci di Yahvéh ai danni d'intere nazioni come moabiti, hetei, hevei, cananei, ammoniti, di norma potenti e alleate l'un l'altra, e che conoscevano strategicamente alla perfezione i luoghi di cui erano autoctone. Tutte queste popolazioni abitavano in un'area storicamente sottoposta alla protezione degli egizi, sicché lo scenario che si profilerebbe è paradossale, al punto che Yahvéh serve soltanto a giustificare delle fantomatiche imprese altrimenti impossibili fuor da ridondanze rodomontesche, considerato che questo dio onnipotente, garante di vittoria sicura, mirabolante industria di miracoli a ciclo continuo, in certi casi non riesce a sconfiggere dei semplici esseri umani perché hanno dei miserabili carri di ferro (Gdc. 1.19). In effetti, oggi gli "ermeneuti" ci dicono che chi ricopiò in tempi più recenti il passo di "Mosé", compì un errore di calcolo, aggiungendo "qualche decina di migliaia" di soldati in più al "sacro libro" cui non è possibile aggiungere o togliere neppure un jod... Forse per lo stesso motivo, oggi, nelle ultime due edizioni della Bibbia (CEI 74 e Paoline 78), le ventitremila vittime dei levìti, di cui sopra, diventano magicamente tremila.

Il vizio esagerato persiste un po' per tutto il libro. Nelle Cronache, Abdia e Geroboamo si scontrano con un totale d'oltre un milione di uomini, con la perdita di mezzo milione di armati in un singolo confronto, mentre ne 2 Re 24 leggiamo come le truppe di David superino ancora un milione d'unità, vale a dire l'equivalente degli effettivi dell'esercito statunitense agli inizi del Terzo Millennio. Nella matematica biblica, invertendo l'ordine dei fattori il prodotto non cambia: nel Genesi leggiamo che con poco più di trecento pastori Abramo distrusse un'armata di svariate migliaia di soldati al solo scopo di salvare Loth, sconfiggendo Amraphel, che, come volevano gli storici biblici fino a poco tempo fa, sarebbe stato addirittura il grande Hammurabi, la cui unica débacle per mano degli ebrei fu tutt'al più quella di farsi derubare delle sue leggi. Stesso dicasi ancora in epoca più recente, con le fantasmagoriche imprese dei Maccabei, a cui proposito non stupisce perché mai questi libri siano tutt'oggi colti con estremo sospetto. Ma tutto ciò è cosa di poco conto, se confrontato alle gesta di Shamgar, che abbatté 600 filistei con un bastone da vaccaro, o dei "prodi di David": Ishbaal, capace di far fuori 800 nemici con una sola lancia, o Sammah, che sconfisse da solo un drappello di filistei radunati... in un campo di lenticchie!

L'apoteosi guerresca di tipo sansoniano travalica infine nel tragicomico, ad es. con l'episodio di Dinah: qui leggiamo che per vendicare l'affronto fatto alla sorella, malgrado fosse stata consenziente e Sicem disposto a riparare, i gemelli Simeone e Levi uccidono da soli tutti i maschi di un'intera città, dopo averli però circoncisi, ripetendo alfine nuovamente il rito del "ratto delle sabine". Ci auguriamo che pure dietro questa vicenda boccaccesca si celi una qualche oscura trasposizione allegorica, dato che per gli ebrei i due ammazzasette simboleggiavano la costellazione dei Gemelli e Dinah la Vergine; fra parentesi, il secondo di loro è l'eponimo della tribù maledetta da Giacobbe, la stessa da cui discenderanno poi i levìti, i sacerdoti di Yahvéh!!!

Potremmo arguire che, a parte motivi a carattere profilattico, per gli ebrei i prepuzi rivestissero un'importanza capitale, a leggere come Yahvéh avesse minacciato di morte proprio Mosé perché non aveva ancora circonciso il proprio figlio. Questa sorta di feticismo etnico raggiunge il livello della monomania, rasentando il grottesco in passi come 1 Re 18.27; qui David, volendo fare la sua bella figura col suocero, regala a quest'ultimo il doppio dei prepuzi richiestigli in dote, seviziando duecento filistei, ma evidentemente lo stesso copista non fu tanto convinto dell'impresa, dacché nel libro successivo di "Samuele" (ovvero 2 Re 3.14) ci presenta un eroe che, colto da amnesia, afferma d'averne "mietuto" la metà.<%pagebreak()%>Addentrandoci nell'epoca di Giosué, notiamo perfetta concordanza di stile col periodo precedente. Tralasciati i giganti, il miracolo di Gabaon o le trombe di Jerico, la parte narrativa di questo libro è concisa, e si riduce ad un mero elenco di città che Yahvéh offre in potere agli israeliti, mentre le imprese di Jerico ed Ai sono un'invenzione tratta da qualche remoto spunto narrativo, poiché all'epoca del condottiero queste due città erano in rovina già da secoli, o non esistevano ancora; l'antichissima Jerico cessò d'esistere cinque millenni prima, mentre Gabaon, come c'informa la stessa Bibbia, fu edificata dal bisnonno di Saul, il che ci catapulterebbe quantomeno a cento anni dopo Giosué. Quest'ultimo, poi, asserisce che Ai non verrà mai più abitata (8.28): ma a parte il fatto che questa città fosse già in rovina sin prima del suo (presunto) tempo, Nehemia la enumera fra i centri urbani d'Israele ancora all'epoca della deportazione a Babilonia (7.32), ossia mezzo millennio dopo.

Simili anacronismi non debbono stupire, se consideriamo ancora quanto detto sopra: nella Bibbia diventa possibile che gli israeliti di Beniamino convivano pacificamente a Gerusalemme con quei gebusei che erano stati già annientati dalla tribù di Giuda (Gdc. 1.18); parimenti possibile è che David penetri a Gerusalemme attraverso un varco nella condotta dell'acqua, che la Bibbia dice costruita proprio dai gebusei, laddove altrove la attribuisce all'iniziativa di re Ezechia, vissuto decenni dopo (3 Re 20.20); per tutto ciò, non dovrebbe meravigliare il fatto che David porti la testa di Golia a Gerusalemme quando la città era ancora in mano sempre ai gebusei (1 Re 17.54), o che Golia stesso sia ucciso ancora per mano di Elanan, qualche anno dopo (2 Re 21.19). Non per altro, molti hanno visto in questo tal Elanan il "nome segreto" di David, e nel gigante un "omonimo" o "un suo fratello"; che viene poi duplicato col nome di Lami, ancora ucciso da questo Elanan. A far compagnia a casi del genere ritroviamo quello di re Abin, ucciso una prima volta da Giosué ed una seconda nel Libro dei Giudici, qualche secolo dopo.

Factoids analoghi si ripetono costantemente. Ne Gen. 4, Er ed Onan figurano ancora fra gli esuli in Egitto nonostante fossero morti tempo prima a Canaan. Allo stesso modo, gli amaleciti sconfitti da Abramo in Gen. 14 non potevano esistere all'epoca del patriarca, dal momento che erano discendenti di Esaù, che a quel tempo non era ancora nato, giacché era pronipote di Abramo. Durante il periodo dei Giudici, risorgono nuovamente quegli stessi midianiti che Mosé aveva completamente sterminato (Nmr. 31.7), per ricomparire ancora una volta al tempo di Saul e David, un centinaio d'anni dopo; sempre al tempo di David, in sei mesi Ioab uccide tutti i maschi di Edom, che si ribella ancora qualche anno dopo al pieno delle sue forze.

L'epoca davidica, quella di sovrani esemplari come David e Salomone, non sfugge al senso generale del libro. Il primo bistratta i cugini moabiti, il cui re, Mizpa, a suo tempo lo aveva fraternamente ospitato salvandolo da Saul; poi riesce ad ottenere albergo e una città in regalo da quegli stessi filistei che egli aveva privato di Golia e ridicolizzato in malo modo, con i quali, in un altrettanto anomalo passo d'amnesia collettiva, avrebbe stretto alleanza per colpire i suoi stessi connazionali: e l'avrebbe certamente fatto, se solo la deprecabile diffidenza dei filistei non gli avesse impedito di compiere una simile infamia. Malgrado Yahvéh proibisse l'adulterio, David ne fa man bassa, spingendosi anche al delitto pur di soddisfare i proprii istinti; d'altronde, l'anomalo comportamento di Yahvéh è in sintonia con quello di un re dissoluto, se il dio degli dèi prima gli ordina di censire il popolo e poi lo punisce per aver obbedito al rogito, seppur dopo averlo messo democraticamente in grado di scegliere fra tre alternative: l'effetto dell'ira di dio, settantamila morti di peste, sarebbe al solito un numero di vittime sin troppo eclatante e sproporzionato, per non costituire il frutto dell'usuale esagerazione simbolistica di chi inventò certe gesta.

Il "giusto e saggio" Salomone ascende al trono grazie al complotto ordito dalla madre Betsabea e dal sacerdote Natan ai danni del vecchio padre, quasi sulla scia della vicenda di Giacobbe, trasgredendo così al comandamento di Deut. 23.3, poiché Salomone non era né primogenito né figlio legittimo: ma era prediletto e infuso della sapienza divina. Onde avallare la propria posizione, l'usurpatore uccide Adonia, il primogenito, e poi si volge contro il generale Ioab, rimasto fedele alla tradizione: rifugiatosi nel templio, il vecchio soldato venne raggiunto dai sicari di Salomone, che in tal modo commise in un sol colpo una doppia trasgressione, cioè omicidio e profanazione del Sancta Sanctorum, senza che Yahvéh abbia nulla da eccepire in tutto ciò. Poi giustificò il crimine dicendo che "anche Ioab era un assassino" (due torti equivalgono a una ragione...).

Altre meraviglie ci attendono, nella storia del "più saggio fra i re". Con un migliaio fra mogli e concubine, Salomone sfoggia un harem talmente mastodontico da far impallidire i più facoltosi sceicchi odierni, ed era talmente ricco da aver donato un totale di mezzo milione di bestie per i sacrifici all'inaugurazione del templio di Gerusalemme. Quantunque certe illustrazioni non rendano l'idea, il templio, delle dimensioni assimilabili a quelle di un magazzino di granaglie, richiese la manodopera di oltre centomila lavoratori: sinora, purtroppo, di quest'altra fantomatica meraviglia dell'antichità biblica non è stato trovato un solo mattone, malgrado gli sforzi decennali profusi da archeologi come Yigal Shiloh. Lo stesso dicasi per il porto nel quale teneva le navi con le quali effettuava le sue spedizioni, nonostante gli ebrei, pur vissuti a ridosso del Mediterraneo, non abbiano mai posseduto alcuna nozione d'ingegneria navale avanzata; difatti il re si affidava ai navigatori fenici, ma nessun documento fenicio cita i suoi mastodontici traffici. Oltremodo strano è che un sovrano così potente, che stando alla Bibbia sposò una principessa egizia e dovette aver intessuto ingenti rapporti commerciali anche con il Corno d'Africa, la Sabah yemenita e Tarshish, non ci abbia lasciato archivi di compravendita che li attestano, pratica comunissima a tutte le civiltà dell'alveo mediorientale, per grandi o piccole che fossero.

Non permane alcun documento, né in Israele né altrove, in merito alle copiose donazioni recate annualmente a Salomone da ogni parte del mondo; nessuna traccia dei centomila talenti d'oro ed un milione d'argento ereditati da parte David (eppure il figlio di Jesse — James? — compì parecchie rapine e razzie!), equivalenti ad oltre 34.000 quintali d'oro e 340.000 d'argento, pari ad un controvalore di circa 65.000 milioni di euro attuali, esclusi i 200 quintali che annualmente impinguavano le casse regie grazie ai tributi elargitigli da chissà quali altrettanto fantomatiche nazioni-satellite (1 Chr. 22.16). Con numeri del genere, non è disatteso che Salomone sia stato assorbito piuttosto facilmente dal folklore arabo che gravita sulla scia delle Mille e una Notte, o in quello etiope in special modo, guardando alle leggende del Kebra Nagast: di cosa dovremmo stupirci, se la stessa Bibbia ci sussurra che, in così gran regno, egli avesse dislocato dodici prefetti, impegnati a procurare alla sua corte il necessario "per ciascun mese dell'anno"? In fondo, il nome di Salomone proviene da una radice che significa "Sole": l'astro diurno ha appunto dodici "attendenti", i segni dello Zodiaco, uno per ogni mese dell'anno!

Non dobbiamo affatto stupirci, poiché anche questa è un'epoca di straordinari prodigi: troviamo re che diventano padri verosimilmente a dieci anni, come nel caso di Acaz ed Ezechia, o come in quello di Acazia, che all'età di quarantadue anni succede a suo padre, morto a quarant'anni. Ne conveniamo, sono evidenze bizzarre, che solo la loro frequenza contribuisce a levigare: non sapremmo se giudicare profezia o refuso il fatto che per costruire il templio David collazioni diecimila darici, una moneta coniata da Dario I mezzo millennio dopo il suo tempo (1 Chr. 29)! Poco male: altre traduzioni moderne parlano di "dracme"!

Altre incongruenze ci attendono con il Libro di Daniele, considerato l'esempio più indiscutibile della divina ispirazione profetica che prelude all'idolo cristiano, ma purtroppo già demistificato sin dal tempo del neoplatonista Porfirio da Tiro nonostante le acrobazie degli esegeti moderni: al 5.1 Belshazzar è presentato come figlio e successore di Nabucodonosor, ma in realtà Belshazzar non fu mai re, perché a suo padre (Nabu-nah'id, ultimo sovrano caldeo) successe proprio Ciro, del quale i "profeti" non conoscevano nemmeno i natali; il Vate asserisce, inoltre, che alla morte di Belshazzar sarebbe asceso al trono Dario, "figlio di Assuero", che in realtà regnò dopo Ciro, il quale al 7.29 signoreggia a Babilonia dopo Dario, ed al 9.1 è definito "figlio di Serse", mentre la storia ci dice il contrario di tutto ciò. Assuero è Serse I, che però è nipote di Istaspe, non viceversa; a sua volta, è Istaspe il padre di Dario, non Serse.
Ma anche gli angeli mangiano fagioli: difatti, un messaggero divino informerà Daniele del fatto che dopo Ciro in Persia vi saranno soltanto altri tre re, laddove in realtà ne seguirono otto.<%pagebreak()%>Potremmo continuare praticamente senza sosta, nell'enumerazione di tante altre stranezze ed amenità contenute nel "Libro dei Libri", ma non vorremmo annoiarvi oltremisura. Da tutto quanto sopra rassegnato, consegue che il dio ebraico non sfiguri dinnanzi alle medesime deità alle quali è stato spesso contrapposto, ma che possedevano ben più valide credenziali in termini di tradizione e diffusione: quelli di dèi come Baal, Saturno, Marduk, Tammuz, erano culti avulsi dalle pretese di tipo yahvitico che, inevitabilmente, data la necessità di conciliare il terrore con la blandizie, sfociano poi in un vasto spettro d'evidenze risibili e contraddittorie.

Il dio su cui sono incentrati libri del genere è uno smaccato paravento particolaristico: il rigorismo che trasuda da tutta l'opera, proprio alle culture fondate sulla legge del più forte e su componenti patriarcali, si spinge fino alle più gravi contraddizioni ed ha esclusivamente un fine di monito nei confronti degli ingenui, non certo di cronaca realistica. È oltremodo ovvio che tutti questi controsensi siano altresì frutto dei limiti idealizzativi di chi li ha concepiti, anche perché, naturalmente, riflettono le necessità dei loro tempi ed il bisogno di costituire una nazione unificata tramite il terrore e delle rigide imposizioni marziali: un dio che fa "il bene ed il male", come dice Isaia, è il riflesso di una volontà utilitarista, la cui evidenza sottintende la ricerca di motivazioni recondite al fine di giustificarla. Ecco che parlare di "interpretazioni" nei confronti di evidenze scomode, prende il sopravvento su quelle scritture che, obverso casu, debbono essere prese alla lettera, equivocando l'incapacità espressiva primitiva come un "enigma divino". In tal modo, si verifica che non solo l'Onnipotente promulga dei canoni comportamentali, ma lo fa in codice cifrato, forse per timore d'essere compreso; o piuttosto, è l'uomo che se li costruisce, al fine di regolare la sua società tramite il monito del sovrumano.

Dietro la maschera di un tal proteiforme Yahvéh, la Bibbia illustra ed osanna un unico e solo dio: il Potere, da conseguirsi con ogni mezzo, specie violento, per l'esaltazione (nel caso) di popoli diseredati. Brevi flash di terrore, sangue, minaccia, distruzione, sortiscono l'effetto d'imprimersi istantaneamente nella memoria, ed al contempo passare inosservati in mezzo ad un'accozzaglia di tediose prescrizioni, minimizzando le evidenze più preoccupanti e ridicole; in tal modo, diventa poco importante che Yahvéh sia null'altro che il remake seriore locale di una divinità secondaria, innalzata a rango primario da un popolo sconosciuto alla storia di cui, nella sua fantasia esegetica, crede d'essere stato protagonista: e, nonostante la sua intrinseca pochezza, la Bibbia rimane comunque l'ineffabile parola divina. La cosa più grave è che simili esempi, intesi realisticamente, vengono innestati alla base del codice comportamentale umano, in quanto il precetto divino è ognora un esempio che l'uomo segue inconsciamente o meno, per assurdo o corretto che sia, senza curarsi delle conseguenze: soltanto il preconcetto che stiamo leggendo la parola di dio, può sviarci a tal punto da non accorgerci della loro realtà e da ritenerli espressione di una mente divina, buona e giusta, pur a dispetto dell'evidenza contraria.

I cosiddetti scritti sacri conserveranno pure qualche precetto di buonsenso, ed è naturale che sia così: ma a parte il fatto che esso viene imposto col terrore, nel più tipico esempio di qualunque barbarismo, si tratta senza mezzi termini prevalentemente di miti e storia distorta convogliati in una straordinaria fucina d'orrori, una sterminata accozzaglia di balordaggini a catena, che solo la preconcetta riverenza nei confronti dell'opera di dio può mascherare ed anestetizzare, sorvolando sulle assurdità e soffermandosi su scarne estrapolazioni contestuali a carattere edificatorio.

È più placito dire, piuttosto, che siano le fiabe edificanti, quei passi in cui dio si mostra benevolo, a costituire delle obbligatorie isole di compensazione in un oceano d'assurdità, violenza e prevaricazione (sono degli episodi indispensabili: nessuno segue una divinità che predica soltanto punizioni e morte); ma non giustificano nulla, perché un dio dovrebbe essere immune da umana debolezza in qualsiasi proporzione, sia essa "occasionale" o sistematica. E quello offertoci dalla Bibbia non è meno assurdo e parziale di tanti altri.

Conveniamo che questi siano degli interrogativi abusati, espressi su un argomento infantilistico, che per convenzione non può essere definito, quale potrebbe mai essere quello dell'indagine della mente divina, sebbene i teologi abbiano già prontamente provveduto a chiarirlo da secoli con le loro "interpretazioni": per buona pace di certuni, opere palesemente escogitate dall'uomo, pregne di controsensi, imprecisioni, odio, violenza, personaggi storici e mitologici camuffati, ricostruite su fonti estorte a civiltà poi denigrate come la feccia dell'umanità, demeriterebbero persino l'archiviazione nella letteratura psichiatrica, men che mai riverenza incondizionata.
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